“Vivere e Non Sopravvivere”, un percorso per la memoria e la giustizia riparativa - di Massimiliano Ravanetti

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Il 5 luglio scorso, ad un campo della pace di giovani a Collecchio (Parma), ho moderato Agnese Moro, figlia dello statista Aldo, e Franco Bonisoli, ex Br, membro del comitato esecutivo e nel commando che sequestrò il presidente della Dc. Le risposte dei giovani a queste iniziative sono sempre preziose.

Dal 2017 mi impegno con progetti sulla ‘giustizia riparativa’. Nel 2018, 2019 e 2021, insieme alla Camera del Lavoro di Parma, mi son fatto promotore di tre incontri pubblici, uno dei quali ha coinvolto 800 studenti delle scuole superiori. A questo percorso, che continua, ho dato il titolo “Vivere e Non Sopravvivere”.

Ma farei un passo indietro: come sono arrivato alla giustizia riparativa? Nel 1978 avevo 7 anni. Ero un bambino come tanti, con le sue paure e i suoi interessi: tanto calcio, i giochi in cortile dei più disparati. Mio padre era un metalmeccanico e mia madre faceva le pulizie in casa di un pezzo grosso. Ricordo in maniera netta il sequestro di Aldo Moro. Quel 16 marzo sono andato a scuola, come ogni mattina, con la spensieratezza di ogni bambino e la preoccupazione scolastica che si può avere a quell’età. Ma dalle 9.30 ricordo perfettamente il via vai delle maestre, le loro facce tese. Siamo stati mandati a casa. Ricordo tutto di quei 55 giorni e, crescendo, quasi come a voler elaborare un lutto, ho studiato tutto di quegli anni poi definiti “di piombo”.

Così iniziai a cercare anche giornalisti o persone coinvolte: ho incontrato giornalisti come Giovanni Fasanella, ma non mi interessava parlare di quei fatti nel suo modo. Ho incontrato irriducibili della lotta armata, dissociati e persone coinvolte in quegli anni. Non amo la dietrologia e non mi piace disquisire su teorie complottiste che lasciano marginali le questioni umane.

Fu così che nei primi anni ‘90 mi imbattei nell’intervista che Sergio Zavoli fece a Franco Bonisoli: fu un’illuminazione. Il modo in cui Zavoli riuscì a mettere in luce l’aspetto umano di una persona che sa di averla fatta grossa ma non chiede nulla e che si fa carico del dolore creato, mi lasciò colpito. Mi colpì positivamente anche come Franco (lo chiamo così perché oggi è uno dei miei amici preziosi) provava dolore, forte e sincero senza barriere: si mise veramente a nudo e, in un paese come il nostro, credo possa anche essere pericoloso.

Avevo trovato un senso alle mie ricerche e studi! Ho sempre pensato che parlare ed elaborare partendo dell’aspetto umano sia importante per uno Stato, una nazione e le persone che lo vivono. Che sia un valore che si dà alla verità. In questo paese parlare di quegli anni riceve spesso ancora degli aut aut. Ma io volevo iniziare un lavoro su quell’aspetto: quello umano. Ho iniziato ad indirizzare le mie letture su quel filone. Ed ho scoperto, dopo altri dieci anni di letture ed ascolti, il gruppo dell’incontro grazie alla pubblicazione del libro (Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, a cura di A. Ceretti, G. Bertagna, C. Mazzucato, Il Saggiatore, 2015). Vittime e responsabili della lotta armata a confronto: si ritrovano per aprire un dialogo. Mi colpì molto una recensione che diceva più o meno che “questo percorso cambia la storia d’Italia”.

Avevo trovato la strada che cercavo. Così ho cercato di trovare i componenti di quel gruppo e son riuscito ad arrivare ad Adriana Faranda, che mi rispose tempestivamente con una delicatezza ed una disponibilità emozionanti: anche lei reputo una grande amica preziosa.

Ho creato il progetto “Vivere e Non Sopravvivere” che porto in giro anche nelle scuole. Ma cos’è la giustizia riparativa? Un percorso che ha l’obiettivo di permettere a chi ha commesso un reato di rimediare alle conseguenze delle sue azioni e di rimettere al centro le vittime sempre troppo dimenticate. Per fare questo è necessario attivare un processo che, grazie all’intervento di mediatori, coinvolga, purché vi aderiscano liberamente, le vittime (o i familiari), i rei, e la società civile. Non è un modo per accorciare la durata della pena, ma per tentare di ‘riparare’ un danno.

Con “Vivere e Non Sopravvivere” ho così avuto modo di incontrare tanti appartenenti al gruppo - Adriana Faranda, Franco Bonisoli, Agnese Moro, Manlio Milani, Giovanni Ricci, Giorgio Bazzega (un altro caro amico, oggi anche mediatore penale e sociale), Luciana Bazzega, Fiammetta Borsellino - e di costruire un rapporto di amicizia vero e sincero, e di portarli nelle scuole o in Camera del Lavoro o nell’istituto penitenziario di Parma, a parlare del loro percorso, di come erano ieri e di come sono oggi.

È un inno alla non violenza e da non violento ne sono entusiasta. Come dice Agnese Moro, “nella mia mente popolata di mostri, mi ha spiazzata scoprire, tramite il percorso di ‘giustizia riparativa’, di avere di fronte un essere umano e che la sofferenza non è appannaggio solo di noi vittime”.

Il preside di un istituto, ringraziandomi per questo percorso, mi ha detto: “Uno Stato e una Scuola non sono maturi se non riescono a parlare ed affrontare i loro nervi scoperti”.

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