Contrattazione, salario minimo, lavoro povero e precario: trent’anni di storia politica e sindacale

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Contributo- riflessione del Coordinamento Nazionale di Lavoro Società per una Cgil unita e plurale

La situazione internazionale

Le crisi di sistema si susseguono ravvicinate, mentre si amplia lo scontro geopolitico, con le guerre per procura e lotte commerciali di potere e di controllo del mercato globale, tra imperi e superpotenze.  

L’avanzare nel mondo di una nuova visione multipolare del sistema di rapporti mondiali, degli scambi commerciali e finanziari globali obbliga l’Occidente, l’Europa al cambiamento delle proprie strategie e dei propri posizionamenti. 

L’Unione Europea e l’Italia hanno rinunciato ad avere un ruolo nello scacchiere mondiale, una politica estera autonoma e di Pace, piegate ad un atlantismo ideologico e subalterno agli interessi imperiali degli USA. Siamo in guerra e in una economia di guerra. 

Il governo italiano è così succube e autolesionista al punto di aderire alla politica bellicista, aumentando le spese militari e inviando armi in Ucraina in spregio alla Costituzione, e alla richiesta di interrompere, limitare i rapporti economici con la Cina, cioè con la seconda potenza commerciale mondiale. 

In generale abbiamo una scarsa comprensione e conoscenza delle radici del susseguirsi delle crisi e si dovrebbero riscoprire strumenti di lettura e di analisi, vecchi e nuovi, sulle loro origini per non subirle, per prevenirle e contrastarle.  

L’idea di un capitalismo e di un mercato in grado di autoregolarsi e di esercitare una responsabilità sociale dominando le proprie contraddizioni si è dimostrata fallimentare. 

Secondo un’analisi e una prospettiva marxista le crisi economiche e sociali sono riconducibili al fatto che, all’interno di una società capitalistica, la valorizzazione del capitale, ossia il conseguimento del massimo profitto nel tempo più breve, rappresenta il valore supremo rispetto al quale ogni altra finalità passa in secondo piano.

Il mercato del neocapitalismo criminale di più profitti, meno diritti e sicurezza miete morti sul lavoro, priva le nuove generazioni di un futuro degno e distrugge la vita del pianeta.  

Questo breve richiamo perché in un mondo globalizzato e interconnesso pensiamo che questo ci riguardi, ci coinvolga e ci condizioni. 

 

Il salario e il lavoro al centro dello scontro europeo e italiano

Nell’antica Roma il sale era un alimento prezioso e merce di scambio, tanto che gli stessi legionari per la loro “prestazione” venivano pagati con il sale. Da qui la parola salario.   

Storicamente il salario è sempre stato al centro dello scontro tra capitale e lavoro, tra economisti di diversa scuola e orientamento liberista o marxista, tra imprenditori e lavoratori, tra chi possiede i mezzi di produzione e chi vende la propria forza lavoro, direbbe Marx. Il salario è il prezzo della forza lavoro che in ultima istanza deriva dal valore-lavoro, mentre nel capitalismo la forza lavoro costituisce una merce e, in quanto tale, scambiabile sul mercato secondo il suo valore, come tutte le altre merci. 

Per gli economisti liberisti alla Adam Smith, la lotta per il salario rappresenta ideologicamente un ostacolo all’efficienza e al ruolo equilibratore del libero mercato.

Oggi, come ieri, a livello europeo e italiano si rinnova lo scontro salariale: la posta in gioco è come si esce dalla crisi di sistema e di accumulazione e chi la paga.

Come sinistra sindacale vogliamo portare il nostro contributo-riflessione perché riteniamo che occorra che la CGIL e le sue categorie approfondiscano la posizione e l’approccio sul salario minimo e su quello contrattuale, essendo il nostro il sindacato della contrattazione e della partecipazione.

Questo paese è il prodotto di scelte sociali, politiche e industriali degli ultimi trent’anni. Pensiamo che da questo occorra ripartire, non per formulare un giudizio storico che non ci compete, ma per ricercare, capire, attraverso un approfondimento critico senza sconti, i limiti e gli errori che ci hanno portato a questa situazione.

 

L’Unione Europea e il salario minimo      

Il 6 giugno 2022 la Commissione, il Parlamento e il Consiglio europei hanno raggiunto un accordo su una “Direttiva EU” per un “Equo salario minimo”. 

L’Unione Europea non “imporrà” obblighi, ma la Direttiva indica agli Stati membri obiettivi generali dentro a un quadro di riferimento nel quale ogni paese potrà orientarsi per fissare, entro i prossimi due anni, i minimi salariali per i/le propri/e lavoratori/trici. 

Il primo obiettivo è un salario minimo equo adeguato in ciascun paese; il secondo è l’incremento della copertura della contrattazione collettiva, con la richiesta, ai paesi che hanno una copertura contrattuale inferiore all’80%, di attivarsi per raggiungere tale cifra percentuale; il terzo è la riduzione delle povertà e delle diseguaglianze salariali. 

Problemi di attualità rispetto a un’Unione nella quale vigono il dumping sociale e la rincorsa all’abbassamento dei costi di produzione attraverso la riduzione dei salari. 

La Direttiva ha tenuto conto della diversità tra gli Stati membri che hanno una legislazione sul salario minimo e quelli che ne sono privi, come l’Italia.  

Il Commissario europeo per il lavoro, Nicolas Schmit, nel presentare la Direttiva, ha rimarcato che i salari minimi europei devono evolvere verso il 60% del salario mediano lordo europeo, che nel 2021 era di 37.382 euro (fonte: Fondazione Di Vittorio). 

Questo parametro, se applicato, significherebbe un aumento salariale in due terzi dei paesi con la legge sul salario minimo. Inoltre, nella Direttiva si segnala che occorre prevedere un adeguamento periodico del salario minimo all’inflazione (ogni 2-4 anni) perché, come dice sempre il Commissario europeo: “una politica di moderazione salariale non è più sostenibile, perché l’inflazione non dipende dagli stipendi”. 

Un’affermazione che contrasta con tutte le teorie degli economisti liberisti e dei politici al servizio del mercato del passato, sulla responsabilità della scala mobile - strumento utile e automatico per adeguare e difendere, pur in ritardo e in parte, i salari colpiti dall’aumento dell’inflazione - abolita in Italia con l’accordo concertativo del 31 luglio 1992. 

Infine, nella Direttiva si chiede di eliminare le deroghe discriminatorie al salario minimo previste in diversi paesi per gli immigrati, i disoccupati di lungo corso, gli apprendisti ecc. 

Nel nostro paese deroghe di altro tipo, quelle che consentono alle aziende di derogare al CCNL, sono state inserite nel mercato del lavoro con il Governo Berlusconi attraverso l’art. 8 della legge 148/2011, quella indicata come legge Sacconi, ancora vigente.  

Sono 21 i paesi dell’Unione che hanno la legge sul salario minimo, la maggioranza ma con molte differenziazioni sulla paga oraria: Bulgaria € 1,87, Lettonia € 2,54, Romania € 2,81, Ungheria € 2,85, Croazia € 3,17, Slovacchia € 3,33, Rep. Ceca € 3,40, Estonia € 3,48, Polonia € 3,50, Lituania € 3,72, Grecia € 3,76, Portogallo € 3, 83, Malta € 4,48, Slovenia € 5,44, Spagna € 5,76, Belgio € 9,66, Irlanda € 10,10, Olanda € 10,14, Francia € 10,15, Germania € 12,00, Lussemburgo € 12,38. Consideriamo, inoltre, il Regno Unito – che fino a qualche anno fa era membro dell’Unione, con un salario minimo di € 9,35 l’ora.

I paesi senza una legge sul salario minimo sono: Italia, Austria, Cipro, Danimarca, Svezia e Finlandia; ad essi si raccomanda di estendere la copertura dei CCNL almeno all’80% degli occupati, per tutelare i salari e anche per favorire la sindacalizzazione e la partecipazione delle parti sociali alle scelte economiche riguardo al lavoro.    

In Italia da decenni abbiamo già la copertura della contrattazione nazionale del lavoro di oltre l’80% degli occupati, mentre l’indicazione di far evolvere il salario minimo verso il 60% del salario mediano lordo europeo non aiuta i salari poveri italiani ma ci aiuta sul piano culturale e politico. 

Occorre interrompere, in Europa come in Italia, la corsa alle delocalizzazioni e alla povertà salariale che ha spesso come unica ragione quella di inseguire il costo del lavoro più basso.

 

Il salario minimo nella realtà italiana

Le proposte del salario minimo per legge avanzate dalle opposizioni politiche e dalla sinistra non parlamentare di Unione Popolare stanno raccogliendo positivamente un forte consenso popolare, e hanno riportato il salario e la condizione lavorativa al centro dello scontro sociale e politico. Se non li si vuole relegare a uno slogan o a una disputa “politicista” occorre saldare la proposta del salario al conflitto più generale sul lavoro e sulla condizione lavorativa. 

Il governo non varerà una legge adeguata sul salario minimo, non è nella sua sottocultura mercantile e nella sua idea di crescita, e sarebbe in contrasto con gli interessi delle lobby, delle corporazioni e delle associazioni padronali di quei settori, base elettorale della destra, in cui prosperano salari da fame, sfruttamento e precarietà. Non è un caso che, in particolare, Confcommercio, Coldiretti, Confesercenti e certe Cooperative si oppongano.

Chi oggi paga un dipendente meno di 9 euro lordi all’ora, circa 6 euro netti, esercita un potere tra diseguali; non è il rapporto tra un datore di lavoro e un dipendente, ma tra un padrone e uno schiavo, tra uno sfruttatore e uno sfruttato. 

Secondo i flussi Uniemens dell’INPS, ci sono oltre 5 milioni di dipendenti a bassa retribuzione per la quantità oraria del lavoro svolto, a prescindere dal contratto, mentre ben 4,6 milioni di lavoratori nel 2021 si collocavano sotto la soglia di povertà, che era indicata in 1.293 euro lordi al mese. 

La CGIL, a differenza del passato, riconosce la necessità di intervenire per legge per introdurre il salario minimo: è una delle rivendicazioni inserite nei documenti congressuali e nella complessiva piattaforma rivendicativa sulla quale chiederemo ai cittadini, ai lavoratori, ai pensionati il consenso e la disponibilità alla mobilitazione generale, a partire dalla manifestazione nazionale del 7 ottobre. Il salario è la retribuzione monetaria che spetta a un lavoratore dipendente in ambito di rapporto di lavoro subordinato o assimilabile.

Un minimo salariale di 9-10 euro all’ora di trattamento economico complessivo per legge, 6-7 euro netti, non è risolutivo di tutti i problemi connessi alla condizione lavorativa, del lavoro povero e precario, dei lavori di poche ore al giorno o al mese, ma rappresenta uno strumento utile anche al rafforzamento della contrattazione collettiva, per estendere la presenza sindacale nei luoghi di lavoro, per intervenire su salari che in decenni, pur in presenza di rinnovi dei CCNL e della contrattazione di secondo livello, hanno perso potere d’acquisto e valore sociale. Dobbiamo ritornare, come sindacato e RSU, al governo e al controllo della prestazione lavorativa e del salario contrattuale, riprendendoci il ruolo di “autorità salariale” perso in questi decenni. 

 

La situazione in Italia è socialmente difficile, complicata 

Il paese reale ci impone un’analisi conoscitiva, profonda e critica, sulle ragioni storiche della condizione sociale e del lavoro in cui versa il paese non da oggi. 

La compagine politica di destra che governa il paese, non per destino ma per errori politici del fronte democratico, è oscurantista sui diritti delle donne, disattenta e colpevolizzante verso le vittime di stupri e violenze e dei tanti, troppi femminicidi: il frutto amaro di una sottocultura patriarcale e maschilista, spesso coperta o giustificata da certa politica.

Ed è oscurantista per tutto quanto ha a che fare con i diritti civili di tutte e tutti, in particolare dei giovani, che, in una situazione di particolare sofferenza dopo la pandemia, vengono criminalizzati se solo provano a stare insieme, basti pensare al cosiddetto “decreto Rave”.

Una destra pericolosa, negazionista sul piano climatico e sanitario, revisionista sulle responsabilità del ventennio fascista, socialmente crudele con i poveri, classista e lobbista, politicamente neoliberista, padronale e bellicista, continuerà con le sue scelte finalizzate a scaricare i costi della crisi e la mancanza di risorse economiche sul mondo del lavoro, sui pensionati, sui ceti meno abbienti, sulle giovani generazioni e sulle donne. 

Più voucher, niente causali, più lavoro precario e a tempo determinato, meno controlli ispettivi, più fringe benefit, niente risorse per i rinnovi contrattuali del settore pubblico, il tutto associato ad una maggior estensione dell’utilizzo degli appalti e subappalti, i cui risultati si rivelano drammatici come la recente strage di Brandizzo dimostra. 

Ancora una volta il governo vorrebbe utilizzare i pensionati come “bancomat”, una sciagura per milioni di persone alle prese con l’inflazione pesante sui generi alimentari e i beni di prima necessità, che hanno difficoltà a curarsi a fare prevenzione per i tagli e le manomissioni privatistiche del Sistema Sanitario Nazionale. 

I pensionati, che sono già stati rapinati in finanziaria lo scorso anno, hanno subito lo scippo di 10 miliardi in tre anni. L’ennesima mancata rivalutazione delle pensioni da lavoro finirebbe per aggravare le diseguaglianze e la situazione generale restringendo la domanda interna.

Come negli anni ‘90, è in atto la corsa alla totale liberalizzazione e privatizzazione del lavoro e del sistema sociale, a ridurre i costi del lavoro attraverso la riduzione dei diritti, la compressione dei salari e l’aumento dello sfruttamento, con turni e orari di lavoro senza controllo e una competizione al ribasso tra lavoratori italiani e stranieri; questa è la nuova frontiera dello scontro generale.

Nel paese, classificato civile e tra i più industrializzati, milioni di lavoratrici e di lavoratori dipendenti, resi invisibili e lasciati in solitudine, vengono retribuiti con paghe orarie e un salario sotto la soglia di povertà, in aperto contrasto con l’art. 36 della Costituzione, che dice che “chi lavora ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”, e con l’articolo 37 in cui si richiama la parità retributiva e si indica che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.

L’esiguità del salario, il salario povero peggiora, deteriora la qualità della prestazione lavorativa, costringe alla prestazione con gli straordinari, all’aumento dell’orario di lavoro fuori controllo, a sottomettersi a condizioni di lavoro inaccettabili, a maggiore disponibilità allo sfruttamento padronale, al ricatto e a lavorare senza protezioni in condizioni dannose per la salute e la propria incolumità. 

Nel fascismo la compressione salariale venne restaurata con forza come condizione “naturale” della via italiana all’accumulazione capitalistica. 

La fantomatica bassa produttività utilizzata per giustificare i salari da fame da Governo, ministri, politici, Confindustria, Confapi, associazioni artigiane, Confcommercio e altri, non è imputabile al lavoratore in un paese in cui si lavora mediamente più che in altri con bassi salari, ma a cause strutturali, alla mancanza di politiche di investimento, all’assenza del ruolo pubblico dello Stato, a un tessuto povero e alla scarsa propensione, tranne rare eccezioni, delle piccole e medie imprese a fare filiera, a stare sul mercato, a investire in innovazione di prodotto e di processo, trovando più facile fare profitto con bassi salari e meno diritti. Molte di queste imprese, anche associate a Confindustria, non applicano i contratti, abbattono salari e costo del lavoro togliendo diritti, chiedendo ritmi disumani, non pagando gli straordinari, usando fuori busta e “forfait salariale”, appaltando ed esternalizzando funzioni e servizi a cooperative spurie che non applicano i contratti del settore o della categoria. Lo stage, che dà opportunità di formazione per acquisire competenze utili, non viene retribuito con uno stipendio ma con un semplice rimborso spese che varia da 400 a 800 euro, e spesso si è trasformato in un risparmio per il datore di lavoro che, a causa dei mancati controlli, lo utilizza per “assumere” a tempo breve manodopera a costo irrisorio.  

Gli appalti al massimo ribasso, la “somministrazione illecita di manodopera” sono una ferita riaperta dal governo Meloni con il suo ideologico e padronale “lasciar fare”. 

Il mercato del neo-capitalismo criminale all’insegna di più profitti e meno diritti e sicurezza miete morti sul lavoro e distrugge la vita del pianeta.   

La difesa e lo sviluppo di buona occupazione esigono invece una politica salariale che riconosca il valore del lavoro e del lavoratore nel rapporto con la prestazione lavorativa.

 

L’unità e la tenuta sociale del paese sono a rischio  

In trent’anni nel nostro paese, dal 1990 al 2020, i salari reali contrattuali sono scesi del 2,9%, mentre negli altri paesi europei sono cresciuti, come ha rilevato l’OCSE oltre un anno fa. Dal 2020 ad oggi è andata ancora peggio, il potere d’acquisto dei salari è calato del 7,5%; il mondo del lavoro dipendente sta pagando crisi profonde nelle quali lo scontro sul salario diviene centrale.

Sul salario e il lavoro povero si misurano le identità politiche e i valori sociali; nessuna equidistanza tra il mercato e il lavoro, tra padroni e lavoratori può essere riproposta.  

Il contesto nazionale e internazionale richiede di costruire un radicale cambiamento attorno a un’idea generale e a proposte concrete da sostenere con lotte e mobilitazioni di ordine generale. Occorre “riprogettare il paese” e costruire l’Europa sociale, riflettere sulle diseguaglianze di ceto e di genere, sulla povertà in aumento, sul tessuto industriale in declino, sulla diffusa disoccupazione giovanile e un altrettanto diffusa occupazione povera e precaria che impone di lavorare di più con salari più bassi. 

La povertà assoluta è in grande crescita, oltre 5,5 milioni di persone ne sono interessate; la stessa Caritas parla di “povertà strutturale”, segnalando un numero di “assistiti” in aumento del 12,5%. Il venir meno del reddito di cittadinanza ha acuito le difficoltà e messo in condizioni difficili molte persone e tanti nuclei familiari.  

I poveri, i meno abbienti, i lavoratori con salari poveri spendono parte consistente del loro misero e limitato reddito in beni di prima necessità, per nutrirsi e curarsi. Beni soggetti a rincari, sottoposti a speculazioni e privatizzazioni hanno visto aumenti vertiginosi. L’inflazione reale nei luoghi di acquisto è doppia rispetto a quella ISTAT. 

Le diseguaglianze economiche e sociali di genere, di ceto e territoriali, tra città, regioni e tra Nord e Sud sono in continuo aumento. L’ascensore sociale si è fermato da tempo, la scuola pubblica è stata piegata ai bisogni del mercato del lavoro, privata di risorse e di personale, l’istruzione “alta” è tornata selettiva e classista. 

La dispersione scolastica coinvolge i ceti popolari, mentre molti giovani laureati emigrano per mancanza di prospettive e di un lavoro qualificato. In un decennio, secondo l’ISTAT, sono emigrati oltre 370.000 neo-laureati. In media i laureati italiani guadagnano, quando hanno un lavoro a tempo indeterminato, poco più di 1.300 euro al mese.

E il governo, confermando la propria matrice repressiva, forcaiola, pensa di rispondere alla dispersione scolastica mettendo in carcere i genitori, invece di costruire comunità educanti, a fronte di disinvestimenti nella scuola e nella cultura, di politiche giovanili inesistenti. Non è un caso che oggi abbiamo il Ministero dell’Istruzione e del Merito…

Tutto questo chiama a responsabilità la politica, i Governi, i poteri forti, ma pone serie riflessioni anche a noi tutte e tutti, alla CGIL.

 

Trent’anni di scambi politici e accordi sindacali a perdere 

Negli anni delle grandi conquiste sindacali, di lotte sociali e politiche, il buon lavoro e un salario giusto hanno significato emancipazione, progresso, e hanno permesso a milioni di lavoratori-cittadini di uscire dalla marginalità, di acquisire rispetto e dignità, e la possibilità per tutti di salire la scala sociale e di avere delle opportunità. 

Anni in cui si sono equilibrati i rapporti di forza tra capitale e lavoro, si è ricostruito un nuovo equilibrio sociale tra le classi e distribuita parte della ricchezza prodotta dal lavoro. 

Quelli che sono stati indicati come i “magnifici trent’anni” sono stati stritolati a partire dagli anni ‘80, in uno scontro generale, economico e culturale, politico e di classe, che sta proseguendo oggi; l’imperativo, allora come oggi, è come uscire dalla crisi di sistema e chi la deve pagare.

La rivincita del mercato e del profitto è iniziata nel mondo con la presidenza di Ronald Reagan negli USA e il governo di Margaret Thatcher nel Regno Unito; quest’ultima affermava che “la società non esiste, esistono gli individui”, mentre il primo denunciava la presenza dello Stato nell’economia con lo slogan “lo Stato è il problema non la soluzione”.

Un credo ideologico iperliberista fondato sul “laissez faire” del mercato e dell’individuo. 

È stato questo il pensiero unico che ha conquistato molti, anche politici “riformisti” di una sinistra che stava perdendo identità e riferimenti storici nel lavoro, come Tony Blair.

Restano emblematiche le parole del finanziere americano tra i più ricchi al mondo, Warren Buffet, che dichiarava sulla stampa “Certo la lotta di classe esiste, solo che la stiamo vincendo noi ricchi”.

In sostanza da oltre trent’anni assistiamo all’offensiva ideologica sul costo del lavoro e il salario con un trasferimento classista di ricchezza dal lavoro alla rendita e ai profitti. 

Si sono incrementati la centralizzazione della ricchezza, fattore recessivo in sé, e il risparmio finanziario improduttivo, riducendo i salari e i consumi con un’occupazione di ridotta qualità, precaria. Si è sviluppata una politica di diseguaglianza, di sottosviluppo e di degrado economico e sociale.

Anni di trasformazioni, di perdita della centralità del lavoro, del salario reale e dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, pagati con l’arretramento delle condizioni di lavoro e la messa in discussione delle conquiste storiche del movimento sindacale.  

Il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, quello dei rigorosi parametri di governo della moneta unica a favore della finanza internazionale, fu base di costruzione dell’Unione Europea neoliberale e finanziaria dell’euro. In Italia furono anni politicamente e socialmente difficili, dalla caduta della prima Repubblica sotto l’azione giudiziaria di “Mani Pulite” all’assassinio di Falcone e Borsellino. Nel mondo si assisteva alla dissolvenza dell’Unione Sovietica, alla disgregazione della Jugoslavia e la guerra dei Balcani era in procinto di scoppiare. 

Nel nostro paese sono stati anni di speculazione sulla conversione della lira in euro, delle controriforme sociali, del risanamento dei conti pubblici, delle privatizzazioni delle aziende pubbliche e dei settori strategici quali l’energia, la siderurgia, le telecomunicazioni, l’aeronautica, i trasporti. Anni di politiche sindacali contrastanti e contrastate nei luoghi di lavoro e nelle piazze che hanno fatto pagare i costi della crisi economica e del cambiamento ai ceti popolari e al mondo del lavoro attraverso gli accordi concertativi-consociativi, la politica dei redditi e del contenimento dei salari.

Anni dei “capitani coraggiosi” che hanno svenduto aziende pubbliche sane e redditizie trasformandole in holding e in soggetti per operazioni finanziarie. 

Sono stati gli anni in cui il PCI viene “sciolto” e assume il paradigma del nuovo corso di un capitalismo trainato dalla finanza. Come riferimento non c’è più il lavoro e il bene pubblico, ma il mercato e il profitto; una politica neo-liberista che porta il sindacato confederale nel tunnel della responsabilità sociale, dell’illusione della politica dei redditi e dei due tempi che segnerà l’inizio della perdita salariale del mondo del lavoro dipendente e della sua centralità.      

I governi “tecnici” e di responsabilità nazionale, Amato, Ciampi, Dini, Prodi, D’Alema, accompagnano e sostengono il cambiamento del capitalismo italiano con scelte perdenti sul piano industriale e sociale che porteranno al depauperamento dei settori strategici, allo smantellamento e alla svendita dell’industria pubblica italiana. 

I cosiddetti “capitani coraggiosi”, definizione usata dal Presidente del Consiglio Massimo D’Alema nel 1999, messi alla prova si sono di fatto rivelati rampanti imprenditori-finanzieri (Roberto Colaninno, Marco Tronchetti Provera, Emilio Gnutti) che avviano la scalata di settori strategici instaurando un nuovo rapporto tra finanza ed economica, tra privato e pubblico. 

La privatizzazione diviene lo strumento per far arretrare lo Stato in economia, per smantellare il sistema pubblico, l’impresa e la ricerca pubblica, il settore industriale, per svuotare la democrazia economica e la nostra Costituzione. 

Uno degli spartiacque dell’economia italiana fu l’OPA Telecom, con il drammatico impatto conseguente di indebitamento che ha gravato sull’evoluzione di una delle migliori società con capacità innovativa dell’apparato produttivo italiano. 

L’Italia di oggi, arretrata, senza un ruolo dello Stato in economia, senza investimenti pubblici e privati, priva di una politica industriale nazionale, è il prodotto e la conseguenza delle scelte sbagliate e fallimentari di ieri. 

Decenni nei quali il lavoro e la sua condizione materiale e sociale sono stati derubricati e ignorati, si è rimosso il tema centrale della qualità e della condizione del tessuto produttivo. 

Il tasso di irregolarità del mondo lavorativo italiano a livello nazionale, stanti i dati ufficiali dell’Ispettorato del lavoro, si attesta al 67% e dilaga nelle piccole realtà produttive e in certi settori deboli e non sufficientemente tutelati: l’edilizia, il terziario, il commercio, l’agricoltura. Un enorme problema di legalità e non rispetto delle normative del lavoro. 

La Costituzione si è fermata sulla soglia di questi luoghi di lavoro.  

Secondo i dati ISTAT il giro di “affari sporchi” dell’economia sommersa ammonterebbe a circa 180 miliardi di euro all’anno, e sono circa 3 milioni le lavoratrici e i lavoratori dipendenti che lavorano in condizioni precarie e irregolari, molti al limite di un” moderno” schiavismo.

 

Il potere d’acquisto dei salari perso da decenni

Dal 1980, dopo la manomissione e con la cancellazione negli anni ‘90 della scala mobile, i salari si sono ridotti costantemente e i profitti sono cresciuti. 

Ma per capire gli anni ‘80 e ‘90 sul piano sindacale ed economico occorre risalire al salto della teoria politica e sindacale inaugurata nel 1978 con l’Assemblea nazionale dei Consigli generali e dei delegati di CGIL, CISL, UIL al palazzo dei congressi dell’Eur. 

L’inizio di un ripensamento sul ruolo del sindacato nella società, meno rivendicativo e più “concertativo” e responsabile verso gli “interessi generali” del paese. 

Un cambiamento difficile e contraddittorio con la storia di un sindacato come la CGIL: si delineano Organizzazioni sindacali confederali più flessibili nei confronti delle richieste del padronato sulla moderazione salariale, sulle ristrutturazioni aziendali e l’accettazione del ricorso ai licenziamenti, per affrontare la crisi petrolifera, economica e industriale in atto. La svolta dell’Eur fu contrastata ufficialmente con il voto contrario nella Segreteria nazionale di Elio Giovannini. Ciò determinò in quel contesto in CGIL la nascita della sinistra sindacale organizzata e nuovi equilibri politici al suo interno. 

Nel frattempo, in quegli anni è diminuita la competitività internazionale, nonostante la riduzione dei salari e la politica dei redditi, a causa del declino complessivo del nostro sistema industriale. 

Il capitalismo italiano, provinciale e conservatore, è stato incapace di una visione progettuale, di rispondere alla concorrenza internazionale, di avviare una trasformazione finalizzata a superare storici ritardi e gravi storture del sistema produttivo italiano, affidandosi unicamente allo sfruttamento e ai bassi salari. 

Il sindacato confederale, nei primi anni ‘90, è stato coinvolto, chiamato ad allinearsi alla strategia subalterna all’ideologia e all’orizzonte neoliberista del governo Ciampi e dei partiti della maggioranza. Le esigenze del profitto e del mercato sono divenute interesse comune, nella convinzione di costruire un interesse generale, una solidarietà e una nuova identità di fondo tra le classi. L’unità nazionale e l’interesse del paese sono divenuti un’ideologia nella quale comprimere, annullare la lotta di classe e la centralità del lavoro, la funzione progressista e riformatrice delle lotte sociali e della classe lavoratrice e delle sue rappresentanze sindacali. Al contrario, il conflitto sociale e sindacale del ventennio precedente era stata la molla per il cambiamento e l’innovazione dello stesso sistema economico-produttivo, oltreché delle conquiste sul terreno dei diritti sociali e civili.

 

La scala mobile un pilastro abbattuto

La scala mobile, perfezionata il 19 gennaio del 1946 con l’accordo firmato da Confindustria e dalla CGIL di Di Vittorio, allora unico sindacato, e ratificata il 25 maggio dello stesso anno, era inizialmente un meccanismo imperfetto: un’indennità variabile secondo l’anzianità e il sesso, essenziale e pensata per difendere i salari dei lavoratori dalla crescita dei prezzi e dalla forte inflazione del dopoguerra.

Il punto unico di contingenza e il “Paniere” di riferimento, contenente i beni di consumo di larga diffusione per la misurazione dell’andamento dei prezzi, venne negoziato nel 1975 tra sindacati confederali e Confindustria, al punto più alto del ciclo di lotte sindacali della fine degli anni ’60 e come conclusione della “vertenza generale” promossa dall’allora Federazione unitaria CGIL, CISL, UIL, raccogliendo la spinta di lotta “egualitaria” che veniva dalle fabbriche e dai posti di lavoro.

Il primo accordo di manomissione della scala mobile fu firmato dal Ministro del lavoro Vincenzo Scotti, da Confindustria e da CGIL, CISL, UIL nel gennaio 1983, con il governo quadripartito (DC, PSI, PSDI e PLI) del Presidente del consiglio Fanfani. 

L’accordo, il “protocollo Scotti” di 14 punti, aveva l’obiettivo dichiarato di ridurre l’alta inflazione al 13 % causata della seconda crisi energetica e, tra l’altro, conteneva l’impegno del sindacato a sospendere la contrattazione integrativa, e di Confindustria a sbloccare il rinnovo dei contratti nazionali. Il punto 7 conteneva la riduzione del 15% della scala mobile, stabilendo a 6.800 lire il nuovo punto di contingenza per il settore pubblico e per quello privato. 

Il successivo governo, presieduto da Bettino Craxi, con il famoso decreto di San Valentino del 14 febbraio del 1984, che il Parlamento approva traducendolo nella legge N. 219 del 12 giugno 1984, taglia 4 punti della scala mobile che sarebbero dovuti scattare nei due semestri di quell’anno, data la precedente manomissione del meccanismo di indicizzazione dei salari dagli scatti trimestrali a quelli semestrali.  

Quel decreto determinò la spaccatura politica tra il PCI e il PSI e la divisione del sindacato confederale per l’adesione, favorevole al taglio, di CISL e UIL e dei socialisti della CGIL. 

Il 24 marzo i comunisti e la sinistra sindacale della CGIL, insieme a molti Consigli di fabbrica sotto la spinta dei delegati autoconvocati, indissero contro il taglio della scala mobile un’enorme manifestazione a Roma. In piazza S. Giovanni si ritrovarono oltre mezzo milione di persone, di lavoratrici e lavoratori. La CGIL era stata “costretta” alla piazza proprio dalla spinta dal basso di un’enorme e ramificato movimento dei consigli di fabbrica, in molto casi unitario e capace di mobilitare delegate e delegati non solo della CGIL, ma anche della CISL e della UIL, soprattutto nell’allora Federazione unitaria dei Metalmeccanici (FLM)!

Contro la legge di taglio della scala mobile il PCI, da poco era scomparso il suo segretario, Enrico Berlinguer, propose un referendum abrogativo, in qualche modo togliendo l’iniziativa dalle mani dei delegati autoconvocati. Il 9 e 10 giugno 1985 si votò per il mantenimento o l’abolizione della legge 219. Lo scontro nel paese portò a un’affluenza del 78% degli aventi diritto; risultato: 45,7% di Sì e 54,3% di No all’abrogazione. L’Italia dei commercianti, della borghesia, delle associazioni padronali, delle corporazioni, degli interessi finanziari, con i suoi potenti mezzi di comunicazione, i detrattori della scala mobile vinsero lo scontro segnando la svolta antisindacale e antioperaia del paese, approfittando anche delle titubanze e delle contraddizioni della sinistra comunista e della stessa CGIL, che aveva preannunciato la necessità di un nuovo intervento sulla scala mobile, indipendentemente dall’esito del voto referendario. 

A febbraio del 1991 avvenne lo scioglimento del PCI con l’avvio della costituzione del nuovo partito, il PDS.

 

L’abolizione della scala mobile ha rappresentato una frattura politica profonda, non solo economica, eliminando quella protezione automatica e solidale del salario minimo contrattuale che aveva unificato attorno a un’idea di società e di progresso i lavoratori, i pensionati, tutti i settori produttivi esclusi dalla contrattazione. 

La sua abolizione fu sancita dall’accordo nazionale concertativo del 23 luglio 1992 tra il governo Amato, Confindustria e CGIL, CISL, UIL. 

Quell’accordo, fatto a fabbriche vuote e senza consultazione e verifica del consenso, diede vita a forti contestazioni fuori e dentro i luoghi di lavoro, alla nascita del movimento dei Consigli di Fabbrica al quale aderirono oltre 900 CdF, e fu la causa delle dimissioni di Bruno Trentin, firmatario dell’intesa, da Segretario generale della CGIL. 

Quella stagione fu denominata dei bulloni e del plexiglas perché nessun sindacalista restò immune dalle contestazioni di piazza. Allora il movimento dei consigli fece da argine affinché le contestazioni non sfociassero in violenza e nell’abbandono del sindacato, in particolare della CGIL. 

Negli anni ’90, con il governo Amato, fu fatta un’enorme opera di risanamento del debito pubblico; si è trattato di circa 600.000 miliardi di lire tra tagli alle spese e maggiori entrate. 

La gran parte del peso delle manovre economiche è ricaduta sul mondo del lavoro dipendente, sui pensionati, sui ceti meno abbienti attraverso la riduzione dello stato sociale, l’aumento delle tariffe e della pressione fiscale sui redditi da lavoro, i tagli al sistema previdenziale e pensionistico.

La sinistra sindacale CGIL osteggiò politicamente e sindacalmente la politica dei redditi e della concertazione, degli accordi del 1992 e del 1993.

Nel documento unitario del XV congresso CGIL del 2006 e nella relazione del Segretario generale Guglielmo Epifani si ribadivano le scelte e le mobilitazioni degli ultimi dieci anni della CGIL contro le derive ultraliberiste del governo Berlusconi e, pur non disconoscendo il valore generale della politica dei redditi degli anni ‘90 e degli accordi nazionali, si prendeva atto che i salari non erano cresciuti e che i 4/5 della ricchezza prodotta erano andati in direzione dei profitti e delle rendite e che non esisteva nessuno sviluppo industriale. Era una politica che non aveva dato i risultati sperati dal mondo del lavoro. 

Vennero individuati negli attori pubblici e privati i principali responsabili del fallimento e si indicava una nuova linea rivendicativa: ora si trattava di riportare al centro la questione salariale, di “riprogettare il paese “, lo sviluppo industriale nel nuovo contesto internazionale del lavoro.

 

Il modello contrattuale e le leggi sul lavoro

 I modelli contrattuali e la restrittiva e perversa legislazione sul mercato del lavoro sono tra le ragioni dell’arretramento del mondo del lavoro e della perdita di salario contrattuale. 

I modelli contrattuali che hanno segnato la contrattazione sindacale di primo e secondo livello sono sostanzialmente due: il primo, quello del 23 luglio 1993, il secondo quello del 22 gennaio 2009 (cosiddetto “accordo separato” non sottoscritto dalla CGIL, ma ancora operante). 

Ambedue questi modelli hanno, nei fatti, predeterminato la riduzione dei salari.

L’accordo del 23 luglio 1993, riguardo alla funzione salariale del CCNL, stabilì che esso doveva “salvaguardare il potere di acquisto delle retribuzioni”. 

Questa funzione sarebbe stata raggiunta con il meccanismo della cosiddetta “inflazione programmata” stabilita al Ministero del Tesoro con le parti sociali, sulla base della quale calcolare gli aumenti contrattuali. Ogni due anni, inoltre, si sarebbero fatti i conti con l’inflazione reale e, a seconda della corrispondenza o meno, si sarebbero adeguati i rinnovi economici successivi. La contrattazione di secondo livello avrebbe potuto contrattare gli eventuali aumenti di produttività per andare oltre la salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni. Non fu così. 

Chi allora si opponeva a quell’accordo, come noi della sinistra sindacale, denunciava il fatto che per tutelare il potere di acquisto delle retribuzioni era molto più efficace la scala mobile, essendo la contrattazione di secondo livello realizzata solo nel 20% delle unità produttive, in un paese nel quale la maggioranza dei lavoratori era impiegata in aziende sotto i 15 dipendenti, senza presenza di strutture sindacali organizzate e tutele adeguate, e senza la protezione dell’articolo 18. 

Nei fatti, con l’accordo del 23 luglio si predeterminava il “congelamento” della dinamica salariale rispetto ai profitti.

 

Dopo l’abolizione della scala mobile del ‘92 e l’accordo nazionale della “politica dei redditi” del ‘93, furono fatte leggi e riforme pesanti nei confronti del lavoro: la riforma Dini (1995) del sistema pensionistico, con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, poi il “Pacchetto Treu” (1997) sul mercato del lavoro, che eliminò il collocamento pubblico e introdusse il lavoro interinale, oggi somministrato. Da allora la sequenza di leggi sul mercato del lavoro e sulla contrattazione, in assenza di una legge sulla rappresentanza e la rappresentatività delle parti sociali, ha determinato sia l’esplosione della precarietà che la conseguente povertà salariale.

Possiamo affermare che tra le cause dei tanti accordi pirata fatti dalle organizzazioni padronali con sindacati corporativi e di comodo, ci sia anche l’assenza di una legge su rappresentanza e rappresentatività.

Le leggi successive, il “pacchetto Treu”, la “riforma Biagi” (2003), “l’art. 8 della legge Sacconi” (2011), la “legge Fornero” (2012), il “Jobs Act” (2014 e i seguenti Dlgs del 2015, 2016, 2017), il “decreto dignità” del primo Governo Conte (2018), hanno seguito un’unica ideologica filosofia di fondo, quella del modello nord-europeo della Flexsecurity. 

L’idea di fondo era che globalizzazione e rivoluzione tecnologica avevano cambiato il mondo e che il modello novecentesco del posto fisso, dei diritti nel lavoro, dei “lacci e lacciuoli”, dello Statuto dei lavoratori, dell’articolo 18, non poteva competere nel mercato globale. 

Molte le leggi e i decreti contro il lavoro fatti dai vari governi, di centrodestra, di centrosinistra o cosiddetti tecnici e di unità nazionale, che hanno prodotto 40 e passa forme di lavoro precario in ingresso, l’abolizione di un pilastro di difesa della dignità delle persone come l’art. 18, la soppressione dei diritti, l’esplosione di lavori marginali, manuali e di cura non valorizzati, di salari poveri, spianando la strada a chi crede ideologicamente nella centralità del mercato e del profitto confidando nella capacità autoregolatrice del sistema capitalistico.  

 

Allora per studiare queste dinamiche e analizzare la realtà forse occorre tornare alla moderna lotta di classe e a quanto scriveva Karl Marx quasi due secoli fa: “Tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe a questo livello della più profonda degradazione”

Possiamo dire che la flexsecurity è stata una gigantesca manovra che ha prodotto in Italia spostamenti colossali di quote di PIL dal lavoro verso la rendita e il profitto. Viceversa, il mondo del lavoro ha perso forza e dignità oltre a quote di salari ed elementi di sicurezza per una vita lavorativa operosa e dignitosa.

Ad aggravare la situazione anche l’“accordo separato”, senza la firma della CGIL, del 22 gennaio 2009; un accordo che cambia la funzione dei CCNL proponendo il passaggio dalla “salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni” a una funzione nuova, quella secondo la quale “il CCNL di categoria (…) avrà la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale”. Un cavallo di troia, visti i ritardi di anni dei rinnovi contrattuali e, soprattutto, il fatto che i “trattamenti economici” erano determinati da un nuovo parametro, in sostituzione dell’“inflazione programmata” del 23 luglio ’93, l’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato, cioè l’IPCA, ma “depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati”. 

Questo parametro è in vigore ancora oggi con tutte le sue conseguenze sul mancato recupero reale dei salari rispetto all’inflazione.

Inoltre, tra le novità dell’accordo separato del 2009 c’è che la contrattazione di secondo livello dovrà avere “caratteristiche tali da consentire l’applicazione degli sgravi di legge”. A finanziare i benefici della contrattazione di secondo livello sarà lo Stato, la collettività, e non il padrone. 

La politica delle de-contribuzioni e delle defiscalizzazioni non è la soluzione: venendone i costi scaricati sulla collettività, diventano socialmente controproducenti, mentre pensiamo che la fiscalizzazione degli oneri sociali per i lavori socialmente utili di cura e di assistenza alle persone e alle famiglie, come quelli di badanti, infermiere e assistenti a domicilio, siano interventi di sostegno da perseguire per le persone e famiglie a basso reddito.

Infine, si può dire che la situazione italiana sul lavoro rende le raccomandazioni della Direttiva europea, ovvero la via contrattuale alla crescita dei salari, difficilmente applicabile nel nostro paese se non nel lungo periodo. La legge sul salario minimo sarebbe utile per milioni di lavoratrici e di lavoratori con paghe orarie da schiavi. 

Abbiamo poco meno di 1000 contratti nazionali; dei circa 25,5 milioni di occupati, il 13% ha salari sotto la soglia di povertà, con contratti a termine e precari. Si tratta di circa 3,5 milioni di occupati. 

Quanto al numero dei contratti, una ricerca del dicembre 2021 della Fondazione Di Vittorio ci dice che “più di un terzo di quelli depositati sono sottoscritti da organizzazioni non rappresentate nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL): 353 su 933, pari al 38%”. 

Contratti “pirata” con norme al ribasso rispetto alle tutele economiche e ai diritti, se comparate a quelle dei CCNL siglati dalle OOSS maggiormente rappresentative. 

Anzitutto l’utilizzo del famigerato art.8 della L.148/2011, nota come “legge Sacconi”, che consente la deroga ai CCNL e la “aziendalizzazione contrattuale”; poi l’utilizzo smodato di tutte le forme di precariato, le retribuzioni “di ingresso” con qualche centinaio di euro in meno, l’assenza della 14°, minori indennità per straordinari e turni, ecc.

Questo negli anni, in presenza anche di mancate indicizzazioni e interventi sul fiscal drag, sui salari, e il ritardo nei rinnovi contrattuali, ha depresso il valore dei salari e reso esponenziale la precarietà del lavoro in Italia. 

Il prof. Tiziano Treu, nella presentazione al CNEL del XXIII rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione (21 dicembre 2021) scrive: “Le forme di lavoro precario, come il part-time involontario e i contratti a termine sono diffusi ed elevati. Gli aspetti negativi non consistono solo nella quantità di lavori temporanei, ma nella loro spesso brevissima durata che impedisce ogni prospettiva di sviluppo, e per altro verso nelle ridotte possibilità di trasformarli in contratti a tempo indeterminato”.

Sono infiniti i limiti, i ritardi strutturali e gli ostacoli da rimuovere nel paese. 

In sostanza, la centralità del lavoro, dei diritti universali, di una occupazione di qualità e di salari degni, la difesa del sistema sociale pubblico devono tornare al centro del cambiamento, della riprogettazione del paese. 

Occorrerebbe una legge su rappresentanza e rappresentatività, e rimuovere buona parte delle leggi sul mercato del lavoro, ripristinando l’art. 18 ante Jobs act per iniziare a restituire dignità al lavoro; occorrerebbe promuovere un nuovo modello contrattuale senza l’Ipca depurata dai prodotti energetici importati. 

Il salario minimo per legge può essere un aiuto alla lotta più generale contro il salario povero, non riduce la contrattazione e non inficia “l’autorità salariale” del sindacato, ma potrebbe favorirle indirizzando la contrattazione di primo e secondo livello su strade accrescitive. Questo dipende anche da noi sindacalisti della CGIL.

La dirigente internazionale marxista Rosa Luxemburg ipotizzava che “il capitalismo può perpetrare la sua espansione…, si nutre di fattori esterni per sopravvivere alle sue crisi e il suo crollo potrà arrivare solo quando l’intera superficie della terra sarà conquistata e divorata”. Vorremmo non dover attendere che questo avvenga. 

Siamo un paese ingiusto, diseguale e senza memoria, il paese dei segreti, delle stragi di Stato e dei depistaggi, con una parte di classe politica priva di etica e di responsabilità sociale, incapace di progettazione del futuro e di politiche di prevenzione, a partire dai disastri climatici e dalle stragi sul lavoro. Vorremmo un paese capace di dare il meglio di sé nella prevenzione e non nel disastro avvenuto. 

 

Occorre cambiare paradigma, e tornare a lottare, a manifestare, a pensare e a proporre la nostra idea di società e di progresso. Occorre non arrendersi alla realtà ricostruendo consenso e partecipazione militante, e nuovi rapporti di forza favorevoli. 

Abbiamo bisogno di accompagnare la lotta politica ed economica con quella culturale, di difendere la nostra democrazia e applicare la nostra Costituzione. 

Occorre che il sistema, l’economia e la tecnologia mettano al centro l’uomo e il pianeta. 

La lotta per il cambiamento non sarà facile né breve ma non ci rassegniamo. 

Il paese reale ha bisogno della CGIL, unita e plurale. 

Settembre 2023

 

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