I pescatori di Lampedusa temono la mancanza di lavoro, non i migranti - di Frida Nacinovich

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Il molo Favarolo è più vicino all’Africa che al Vecchio Continente. Qui non ci sono i migranti che pure sbarcano nell’isola fuggendo da guerre, violenze di ogni genere, carestie e miseria. Ci sono i pescatori lampedusani, costretti a rimanere a terra per rispettare il mese di fermo pesca che, ironia della sorte, ha coinciso con un periodo meteorologicamente incantevole.

Enzo Billeci ha sessant’anni e subito racconta: “Quando ero bambino e andavo a scuola, la notte facevo i compiti su questa barca di cui ora sono il comandante. Era di mio padre, una seconda casa per me e per la mia famiglia”. Dal viso abbronzato, segnato dalla salsedine e dal vento di una vita passata in mare, spunta una lacrima: “Fra poco sarò costretto a rottamare il peschereccio, accettando gli incentivi di legge. Non ce la facciamo più con i costi, il prezzo del carburante è salito alle stelle, le normative europee non ci aiutano, anzi affossano un settore che non ha ammortizzatori sociali”.

Oggi il pescatore discute con i compagni di lavoro sul da farsi, chiedendo di invertire una tendenza che da tanti troppi anni è diventata regola. I finanziamenti pubblici vengono invariabilmente destinati alle imprese, alle associazioni datoriali, a quelli che un tempo si sarebbero chiamati ‘padroni’. Mentre poco o nulla va ai lavoratori, a quelli che ogni giorno con il loro impegno mandano avanti il paese. “Solo se hai passione puoi fare questo mestiere - spiega Billeci - un lavoro faticosissimo, anche ben retribuito in certi periodi dell’anno, o per meglio dire degli anni passati”. Accenna un sorriso, ricordando tempi migliori di questi: “Oggi sembra che la regola sia il sussidio, il bonus, il provvedimento una tantum. Devi capire se hai i requisiti, quali sono i tempi per presentare le domande, quando potrà arrivare il ristoro. Sono aiuti, ipotetici, che però non compensano mai le perdite. Al più riesci a recuperare qualcosa, e non è nemmeno detto. Noi pescatori vorremmo solo essere messi in condizioni di lavorare”.

“Non c’è futuro per questo mestiere - riflette il pescatore - io ho due figli maschi e non ho consigliato loro di proseguire con la tradizione familiare, anche se uno dei ragazzi vuole provarci. Siamo stretti in una gabbia, con restrizioni da destra, da sinistra, dall’alto, dall’Europa, dalla Tunisia. Noi viviamo in mezzo al Mediterraneo, siamo in balia dei venti, ci basta fare un miglio e siamo già in alto mare. Non tutti i giorni sono buoni per pescare, al massimo ce ne sono novanta, cento nel corso di un anno”. Billeci fa pesca a strascico, quando era più giovane faceva “pesca azzurra”. “Catturiamo triglie, polpi, calamari, merluzzi. I più pregiati sono i calamari di questo tratto di mare, se uno li assaggia capisce subito il perché”.

Ormai Lampedusa nell’immaginario collettivo è il punto di approdo di migliaia e migliaia di migranti. La domanda è obbligata: come riuscite a gestire questa situazione di quotidiana emergenza? Ma è un interrogativo più per chi viene dal Continente che per chi vive qui. “Qui i migranti sono sempre arrivati, anche quando non c’erano le telecamere delle televisioni. E mettiamo subito le cose in chiaro, quando ci sono vite in pericolo, uomini in mare, vanno soccorsi subito. Ogni altra considerazione passa in secondo piano. Le persone vanno aiutate, rifocillate, portate a terra. In trent’anni che sono in mare potrei scrivere un libro su quante storie drammatiche e commoventi ho vissuto”.

Per i pescatori lampedusani casomai il problema è “ambientale”. Sono i relitti che restano in mare dopo sbarchi e naufragi, pezzi di imbarcazioni che finiscono per rompere le reti da pesca, carburante che inquina il mare. Al contrario le specie aliene non hanno fatto danni, sono comparsi i granchi blu ma non hanno trovato un habitat adatto, invece preoccupa di più la diminuzione dei pesci pelagici. Intanto Billeci dà uno sguardo al peschereccio di venti metri fermo in porto, e poi arriva una frase gonfia di orgoglio: “Per quanto sia stato difficile, faticoso, rischioso, rifarei tutto e resterei nell’isola. Questa è casa mia”.

I racconti dell’uomo del mare sono come favole per chi ascolta, popolate di delfini che quasi ballano fra le onde, ghiotti di pesce azzurro e quindi potenziali rivali per i pescatori. Ma talmente belli da vedere che un po’ di scarti delle lavorazioni sono sempre per loro, custodi di un mare pericoloso ma impareggiabile.

 

Mentre cala la sera e gli ultimi raggi del sole illuminano ancora l’orizzonte, Antonio Pucillo, capo dipartimento pesca Flai Cgil nazionale, Tonino Russo, segretario generale Flai Sicilia, e Giuseppe di Franco della Flai di Agrigento assicurano ai pescatori che non saranno lasciati soli. E tutti insieme faranno sentire la propria voce a una politica che come troppe volte accade non ascolta il mondo del lavoro.

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