Comifar, meno lavoro per tutti - di Frida Nacinovich

Così non va bene. A maggior ragione se si è un’azienda leader nella distribuzione dei farmaci, assicurando i quasi quotidiani rifornimenti alle farmacie. Comifar ha magazzini lungo l’intera penisola, da nord a sud dello stivale, un colosso del settore, con 1.300 addetti senza considerare l’indotto. Un gigante che invece di assicurare diritti e tutele a lavoratrici e lavoratori - perché i soldi ci sono - con la scusa di una pur fisiologica evoluzione tecnologica li sta progressivamente mandando a casa.

Un passo indietro. Nel 2020 la Comifar fa sapere di voler riorganizzare il customer service, settore che riguarda gli addetti ai call center, e quelli che si occupano della logistica interna, in altre parole della gestione degli ordini e dei servizi alle farmacie. Il management aziendale usa l’innovazione tecnologica come una clava su lavoratrici e lavoratori, perché i pur alti profitti non bastano mai e quindi si risparmia sul costo del lavoro, con app e email al posto di donne e uomini in carne e ossa. Persone che quando hai un problema cerchi sempre, restando invariabilmente deluso quando all’altro capo del telefono risponde una macchina programmata ad hoc.

Obtorto collo, i dipendenti di Comifar e le loro organizzazioni sindacali, Filcams Cgil in testa, hanno discusso per due lunghi anni sulla “riorganizzazione” del lavoro, cercando di limitare al massimo gli esuberi, solo su base volontaria e incentivata. “Non solo - racconta Paola Marzano, delegata Filcams eletta nella Rsu aziendale - ci siamo anche ridotti l’orario di lavoro, con conseguente taglio dei salari. E pensa che molti di noi hanno il part-time. Non basta, abbiamo cambiato le nostre mansioni spostandoci da un reparto ad un altro, modificando i nostri orari di lavoro”. Sacrifici veri, per salvare quanti più possibili colleghi e colleghe di lavoro destinati inizialmente ad essere né più né meno che licenziati. “Non dimentichiamo - aggiunge Marzano - che in quei mesi si è utilizzata la cassa integrazione a lungo”.

All’inizio dello scorso anno, la “riorganizzazione” sembra essersi chiusa tutto sommato positivamente, sono stati fatti sacrifici ma il valore del lavoro è stato difeso. Due mesi fa però la doccia fredda: i vertici di Comifar avviano la nuova, ennesima “riorganizzazione”. “Sono addette di un altro reparto, non del customer service, ma sono sempre nostre compagne e compagni di lavoro che l’azienda vuole licenziare”. Roba da matti.

I diktat aziendali continuano, a valanga, e vengono annunciati nuovi, ulteriori esuberi nel customer service, quello coinvolto dalla precedente trattativa. A questo punto lavoratrici e lavoratori dicono basta e avviamo lo stato di agitazione, contestando apertamente i licenziamenti annunciati. Vengono indette 10 ore di sciopero e assemblee da gestire a livello territoriale. “Questa ultima procedura di licenziamento collettivo - puntualizza Marzano - coinvolge complessivamente 41 lavoratrici e lavoratori impiegati nei reparti front-end, omeopatia, teleselling e transfer order. L’impatto maggiore riguarda la sede romana di via Morozzo, con 35 esuberi, ma ad essere coinvolte sono anche le sedi di Torino per un caso, un altro a Lamezia, due a Teramo, uno a Misterbianco in Sicilia, infine uno a Novate Milanese”.

Per le organizzazioni sindacali, che in un comunicato unitario denunciano la terza “riorganizzazione” avviata da Comifar negli ultimi anni, “è inaccettabile ed ingiustificabile che una società leader di mercato, i cui andamenti commerciali e gestionali sono positivi, decida in breve tempo di ristrutturare un reparto che era già stato oggetto di tagli e riduzioni orarie e contrattuali”. Ad essere coinvolti, sottolinea la nota unitaria, “lavoratrici e lavoratori che con sacrificio e responsabilità hanno già accettato di ridursi l’orario di lavoro e cambiare reparti e orari per potersi assicurare un futuro professionale sereno”.

“Questa – aggiunge Marzano – è una mancanza di rispetto, anche un tradimento della fiducia di noi che lavoriamo in Comifar. Non ci possiamo fidare di chi licenzia, rinnegando progetti gestiti con accordi sindacali di grande rilevanza solo pochi mesi prima”. In Comifar da ventidue anni, di cui venti passati al call center, Marzano scuote la testa: “Il management non ha minimamente considerato i nostri sforzi. Certo, è innegabile che l’automatizzazione stia cambiando profondamente il nostro lavoro. Al tempo stesso è anche vero che noi abbiamo fatto di tutto per trovare un accordo che salvaguardasse l’occupazione. Non siamo giovanissimi, quasi tutti over quaranta, abbiamo mutui da pagare, figli da mantenere agli studi. Passare dalle 40 ore a 30, a 25, o addirittura a 24 in busta paga si sente eccome. Trentacinque esuberi su Roma sono tanti, un accanimento da parte di una multinazionale con fatturati da capogiro. Siamo stati in solidarietà nel periodo del covid, ci hanno fatto lavorare anche per Santo Stefano e Pasquetta, il magazzino di via Morozzo della Rocca di sacrifici ne ha fatti parecchi. Mentre nell’altro magazzino di via Tiburtina ci sono comunque molti interinali”. Adesso basta.

 

 

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