La gestione della piazza e la polizia democratica - di M.C.

Progettare una strategia culturale per strappare la categoria dei poliziotti dall’egemonia culturale delle destre. E superare il tabù sui codici identificativi.

Gli ultimi mesi sono stati particolarmente complessi sul piano dell’ordine pubblico, la repressione verso le proteste studentesche è stata decisamente evidente a Torino, Roma, Napoli, Firenze e Pisa. Repressione che ha riaperto il dibattito nel paese sul livello di democratizzazione delle forze dell’ordine e sulla gestione della piazza.

La Polizia di Stato ha la responsabilità della gestione dell’ordine pubblico, le altre forze concorrono nei servizi, quindi è sulla Polizia che si concentrano attenzioni ed aspettative. Il problema principale però non è tecnico ma culturale: il contesto politico del momento condiziona la gestione delle piazze, senza necessità di disposizioni specifiche ma semplicemente delineando la cornice culturale per l’azione delle forze dell’ordine.

Il governo Meloni fin da subito ha delineato un perimetro culturale securitario, caratterizzato dall’introduzione di nuove fattispecie di reato e l’inasprimento di pene per alcuni reati esistenti, con il chiaro obiettivo di mostrare l’azione muscolare di governo in materia di sicurezza.

I provvedimenti adottati in questi mesi vanno in quella direzione: il decreto anti-rave, il decreto Cutro, il decreto Caivano e il pacchetto sicurezza, con i suoi tre disegni di legge per limitare le proteste ambientaliste ed ammiccare alle forze dell’ordine prevedendo l’aggravante di pena in caso di violenza, minaccia e offesa al pubblico ufficiale se commessa nei confronti delle forze di polizia, e l’inutile norma per consentire a quegli stessi operatori di portare un’arma privata oltre a quella di servizio.

Il governo avversa culturalmente il Green Deal e la transizione ecologica europea, temi ambientali che vedono la partecipazione crescente dei giovani, che devono essere contrastati, silenziati e costretti ad accettare il futuro deciso da altri. Abbiamo anche assistito ad approcci e risposte diverse secondo il tipo di proteste: mano ferma nei confronti degli studenti e tolleranza verso le manifestazioni di matrice fascista o verso le proteste dei trattori.

Il versante culturale è quello sul quale concentrare sforzi ed azioni, per evitare il protrarsi di quel fallimento indicato dal capo dello Stato sull’utilizzo dei manganelli verso i giovani studenti.

Occorre prevedere per il personale di polizia una formazione sociale, culturale, da affiancare a quella tecnica. Una formazione finalizzata ad educare il personale a metabolizzare il diritto al dissenso, alla protesta pacifica, alla manifestazione delle idee e spingerlo a dialogare con chi scende in piazza: studenti preoccupati per la pace del mondo o per il loro futuro sempre meno green, lavoratrici e lavoratori che chiedono lavoro e diritti, oppure cittadini che chiedono l’allargamento dei diritti civili.

Dialogare significa prevenire ed evitare l’innesco dal quale poi scaturisce la repressione. Servono mirati protocolli con gli istituti scolastici per consentire al personale di polizia di dialogare con gli studenti sulle modalità che disciplinano le manifestazioni, come avviene oggi per il bullismo, ecc. La maggior parte di loro non sa che non occorrono autorizzazioni per esprimere pacificamente le proprie idee, ma basta comunicare preventivamente l’iniziativa di protesta.

Il tema di fondo che torna ad essere di straordinaria attualità è lo stato di democratizzazione della Polizia di Stato, che oggi sembra segnare il passo. Il sindacato confederale è stato fondamentale per il processo di democratizzazione della Polizia di Stato, sostenendo la sua smilitarizzazione con la legge 121/81 e la nascita del sindacato. Nascita che ha visto subito la contrapposizione fra due mondi: quello d’ispirazione confederale unitario Siulp e quello autonomo e corporativo del Sap.

Dopo oltre quarant’anni la componente d’ispirazione confederale è decisamente in crisi: la frammentazione sindacale ha prodotto le attuali trentadue sigle, undici delle quali titolate a partecipare ai tavoli di contrattazione, anche attraverso patti federativi. Sigle sindacali che sono quasi totalmente espressione del mondo autonomo, la mancata libera sindacalizzazione ha fatto arretrare la categoria verso il corporativismo.

Nei giorni scorsi la maggioranza politica di destra non ha esitato ad esprimere solidarietà alla Polizia, anche davanti agli eccessi visti a Pisa; si è spinta a dirittura a sostenere che l’operato della Polizia non può essere criticato, segnando una frattura istituzionale con il presidente Mattarella. Occorre interrompere la saldatura fra categoria, rappresentanze sindacali autonome e destra di governo, perché la gestione della piazza sarà fondamentale per la crescente crisi economica e sociale. In questi giorni i sindacati autonomi stanno chiedendo norme a tutela della Polizia rispetto alle manifestazioni.

Il ruolo della Cgil deve tornare ad essere centrale su questi temi e la libera sindacalizzazione non è più rinviabile. La contaminazione del sindacato confederale verso la categoria dei poliziotti è l’unica strada e deve diventare incubatrice per gli anticorpi democratici. La Cgil deve entrare nei luoghi di lavoro della polizia e fare assemblee con il Silp, per rilanciare il percorso confederale, coniugando le giuste rivendicazioni di categoria ai temi sociali e culturali, linfa per far crescere i valori confederali necessari per mantenere alto il livello di democratizzazione della categoria.

Anche i pochi sindacati d’ispirazione confederale hanno da tempo abbandonando la rivendicazione sugli identificativi (Silp Cgil compreso) ritenendoli superati dall’introduzione delle bodycam. Innovazione tecnologica che aveva forse illuso sulla possibilità di rinunciare alla battaglia di civiltà per introdurre il numero identificativo. Una valutazione errata, visti i recenti episodi di piazza dove il personale indossava le bodycam in dotazione. Le bodycam vedono il proprio limite proprio nei momenti critici: sono attivate solo per ordine del responsabile del servizio, e il loro posizionamento, sul petto del personale, spesso fornisce immagini degli scudi protettivi, quindi inutili per fare chiarezza sugli episodi.

Bisogna superare il “tabù sui codici identificativi” che, nonostante la richiesta del Parlamento europeo del 12 dicembre 2012 agli Stati membri per garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo, continua a non trovare soluzione. Sul tema la Cgil deve assumere una posizione chiara, e vista la sua delicatezza bisogna coinvolgere le componenti democratiche del paese per una comune azione civile e politica capace di definire una proposta condivisa, non escludendo una legge di iniziativa popolare, visto che si continuano a presentare disegni di legge di difficile attuazione tecnica e spesso anche poco rispettosi delle lavoratrici e dei lavoratori interessati.

La Cgil, insieme al Silp, potrebbe aprire una riflessione partendo ad esempio dal modello tedesco, che prevede un velcro e numeri che cambiano ad ogni servizio, assegnati a rotazione casuale fra più squadre ed identificativi di reparto e squadra, non personali. Individuata la squadra, identificare il singolo diventa facilissimo, obiettivo che è alla base dell’introduzione del numero identificativo. Questo modello ha il vantaggio di essere già attuato in Europa, ed evita di “marchiare” l’operatore con un numero.

Il tema dei numeri identificativi deriva da una specifica richiesta del Parlamento europeo, quindi potrebbe essere oggetto di approfondimento nella prossima campagna elettorale per le elezioni europee dell’8-9 giugno. 

In sostanza, non bisogna soffermarsi sul singolo episodio di violenza, che per fortuna vede già l’azione penale obbligatoria della magistratura, bisogna progettare una strategia culturale per strappare la categoria dei poliziotti dall’egemonia culturale delle destre, per il bene della democrazia.

 

 
©2024 Sinistra Sindacale Cgil. Tutti i diritti riservati. Realizzazione: mirko bozzato

Search