Infortuni sul lavoro e vulnerabilità della vittima - di Antonio Bevere

Negli ultimi tre decenni, la caratteristica principale del mondo del lavoro dipendente è la precarietà, associata a una maggiore esposizione al rischio di infortuni, determinato da comportamenti imprenditoriali non rispettosi delle regole di sicurezza. Attualmente, i contratti a termine rappresentano la stragrande maggioranza del totale delle nuove assunzioni. Per questi lavoratori si aggiungono alla insicurezza del posto di lavoro e alla scarsa integrazione nell’organizzazione aziendale, e quindi anche nel sistema di sicurezza, orari prolungati, frazionati, a turni e ritmi elevati.

Il lavoratore precario difficilmente lamenta la violazione delle regole di sicurezza per timore di essere licenziato o non riconfermato. E’ quindi primaria cura dei giuristi e del sindacato rendere consapevole il lavoratore delle regole e delle prassi idonee alla tutela del suo diritto alla salute.

Rispetto al pericolo di infortuni sul lavoro esiste una generale uguaglianza di tutti i lavoratori, precari e stabili, che si trovino nella condizione di vulnerabilità. La direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo, all’articolo 2, paragrafo 2, ha definito la posizione di vulnerabilità (alias, stato di necessità) come “una situazione in cui la persona … non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”.

E’ commesso il grave delitto di riduzione e mantenimento in servitù, se lo stato di necessità e soggezione del lavoratore sia risultato incompatibile con la possibilità di determinarsi con la dovuta libertà nelle scelte economiche ed esistenziali e abbia consentito al datore di lavoro, nella stipulazione e nell’applicazione dell’accordo, di approfittare di questa situazione di inferiorità della controparte.

Gli elementi costitutivi sono stati esposti con insuperata chiarezza dalla Suprema Corte: scambio prestazioni/retribuzione a condizioni sproporzionatamente svantaggiose sul piano economico, sanitario e psicologico per il lavoratore e conseguenti prestazioni in condizioni non dovute, in base agli accordi sindacali, alle norme di legge, ai principi costituzionali.

L’articolo 600 del codice penale prevede la reclusione da 8 a 20 anni (con conseguente ostacolo alla declaratoria di estinzione per prescrizione, in caso di prolungamento dei tre gradi di giudizio).

Proprio sotto il profilo della fondamentale libertà psichica del lavoratore, la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimazione della Flai Cgil a costituirsi parte civile nei confronti dei responsabili dei reati di riduzione in servitù e di intermediazione illecita. La Corte di Assise di Lecce ha affermato che il sindacato annovera fra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro, intese in senso ampio e, dunque, non strettamente riconducibili ai profili economici della prestazione lavorativa. E’ compito del sindacato quindi proteggere i diritti primari del lavoratore, fra cui vanno compresi – oltre a quelli inerenti la vita, la salute - le libertà fondamentali. Ne deriva che, ove tali diritti primari siano lesi da fatti costituenti reato, vada riconosciuta, oltre che al lavoratore, anche al sindacato la legittimazione a costituirsi parte civile, derivando da quei fatti la lesione di un diritto proprio del sindacato medesimo. Tanto più che la normativa vigente (art. 9 L. n. 300/70; T.U. n. 81/08) riconosce alle organizzazioni sindacali un ruolo pregnante in riferimento alla tutela delle condizioni di lavoro, ruolo che deve ritenersi vieppiù ribadito in riferimento ad imputazioni gravissime quali la riduzione in schiavitù e la violazione della legge sul “caporalato”.

Venendo a una concreta ipotesi di infortunio o di morte sul lavoro, il processo secondo un logico ordine di successione cronologica, va così scandito: 1. prioritario esercizio dell’azione penale in ordine al delitto ex art. 600 c.p. (la cui estinzione per prescrizione è ostacolata dalla elevata pena edittale), finalizzato all’accertamento - a monte dell’incidente - di un accordo condizionato dallo stato di assoluta soggezione e di necessità del defunto o dell’infortunato e del conseguente approfittamento della controparte (assenza di adeguata retribuzione a fronte di pericolosa esposizione dell’incolumità fisica); 2. pronuncia di condanna per il delitto di riduzione in servitù; 3. identificato il colpevole di questo delitto doloso, secondo un compatto orientamento giurisprudenziale, si applicano, a norma dell’articolo 586 c.p., le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 per i comuni delitti di omicidio e lesioni colposi sono aumentate. La successione temporale degli accertamenti penali è dovuta all’esigenza di evitare che quello sul successivo infortunio non costituisca oggettivo ostacolo su tempi e modalità del prioritario accertamento dell’evento doloso del delitto base.

Nella dolorosa casistica di morti o malattie sul lavoro, la magistratura razionalmente deve quindi procedere a una prioritaria indagine diretta ad accertare se l’infortunio lesivo o mortale risulti conseguenza non voluta di “un fatto preveduto come delitto doloso” (riduzione in servitù).

 

 
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