Harry Braverman, un ‘classico’ da riscoprire - di Lelio Demichelis

Perché siamo sempre così affascinati da ciò che sembra nuovo - tanto da ‘credere’ che sia nuovo davvero, anche quando non lo è? Perché siamo incapaci di guardare al passato per capire il presente. E allora riprendiamo “Lavoro e capitale monopolistico” (Einaudi) di Harry Braverman, un saggio degli anni ‘70 oggi introvabile se non nelle biblioteche o ‘vintage’ in rete. Sottotitolo: “La degradazione del lavoro nel XX secolo”, uno studio di alta qualità analitica e critica sui modi di produzione del Novecento.

Ma chi era Braverman (1920-1976)? Aveva lavorato come ‘operaio di mestiere’ in cantieri navali e poi in industrie metalmeccaniche, era stato militante del Socialist Workers’ Party fino al 1953, poi direttore del mensile “The American Socialist”, quindi, dal 1967 fino alla sua morte, direttore editoriale della “Monthly Review Press”.

Il libro inizia con una definizione: “Il ‘capitalismo monopolistico’ ha avuto inizio negli ultimi decenni del XIX secolo” con la concentrazione e la centralizzazione del capitale. Esso “contiene in sé l’aumento delle organizzazioni monopolistiche all’interno di ogni paese, l’internazionalizzazione del capitale, la divisione internazionale del lavoro, l’imperialismo nonché i mutamenti nella struttura del potere dello Stato e l’utilizzo crescente e sistematico della scienza per una più rapida ed efficiente ‘trasformazione della forza-lavoro in capitale’”.

In questo processo “il capitale - che ‘entra con frenesia’ in ogni nuova area possibile di investimento - ha ‘riorganizzato completamente la società’”. Ha cioè assunto “il controllo della totalità dei bisogni individuali, familiari e sociali […], ‘trasformando l’intera società in mercato’” e presentandosi “come un vero e proprio ‘determinismo tecnologico’” o peggio come “un ‘dispotismo della macchina’” – e oggi diremmo ‘dispotismo degli algoritmi/IA’, con il ‘nuovo’ capitale monopolistico delle grandi imprese hi-tech.

Scriveva Braverman: “Negli anni ‘60 e ‘70 vi era una diffusa insoddisfazione per il lavoro” (come oggi…). Tra i rimedi proposti ‘allora’ dal management vi erano “l’ampliamento, l’arricchimento delle mansioni, gruppi e squadre di lavoro, la consultazione o la partecipazione dei lavoratori, i premi di gruppo e la partecipazione agli utili d’impresa, la promessa di abbandono dei metodi e delle tecniche basate sulla catena di montaggio e la tecnica del ‘I Am’, cioè ‘I Am Manager of My Job’”.

Anche oggi il management replica le stesse identiche tecniche psicologiche, che però ‘sembrano nuove: lavoro come collaborazione, self management, empowerment’ ed ‘enrichment’ delle mansioni, essere ‘imprenditori di se stessi’ (l’equivalente di ‘I Am’). Ma lo scopo era/è sempre il medesimo, “tagliare i costi, migliorare l’efficienza e aumentare la produttività”, cioè il profitto d’impresa.

Proseguiva Braverman, “una conseguenza necessaria della separazione fra ‘ideazione’ ed ‘esecuzione del lavoro’ [tipica del taylorismo; oggi digitale] è che il processo lavorativo è ora diviso in tanti luoghi distinti e in tanti distinti gruppi di lavoratori. In un posto si svolgono i processi fisici di produzione; in un altro sono concentrati la progettazione, la programmazione, il calcolo e la registrazione. L’idea preliminare del processo prima che esso venga messo in moto; la visualizzazione delle attività di ciascun lavoratore prima che esse abbiano effettivamente inizio; la definizione di ogni funzione, insieme al modo di eseguirla e al tempo che richiederà; il controllo e la verifica del processo in corso una volta iniziato; la valutazione dei risultati al compimento di ciascuna fase: ‘tutti questi aspetti’ della produzione sono stati trasferiti dallo stabilimento agli ‘uffici direttivi’”. E ‘tutti questi aspetti’ sono oggi incorporati, integriamo Braverman, negli ‘uffici direttivi’ chiamati algoritmi/piattaforme/IA – nel ‘capitalismo digitale’.

Ancora: il sistema capitalista “viene di continuo raffinato e perfezionato, sicché ‘la sua pressione sui lavoratori è incessante’. In pari tempo, l’‘assuefazione dei lavoratori al modo capitalistico di produzione deve essere rinnovata a ogni generazione’. […]

La necessità di ‘adattare’ il lavoratore al lavoro nella sua forma capitalistica, al fine di superare la sua naturale resistenza, resa più acuta dai rapidi mutamenti della tecnologia […] non ha quindi fine con la ‘organizzazione scientifica del lavoro’, ma diventa una caratteristica ‘permanente della società’ capitalistica”.

Ci fermiamo qui, per problemi di spazio - ma in Braverman c’è molto altro e di grandissima attualità, dopo mezzo secolo da allora. Un libro quindi da leggere o rileggere. E da meditare.

 

 
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