La parola passa alla Consulta, alle Regioni e ai cittadini - di Alfonso Gianni

Le destre cantano vittoria per avere fatto approvare il Ddl Calderoli sulla Autonomia differenziata e, in prima lettura, il Ddl costituzionale sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Lo hanno fatto ricorrendo a tutte le possibili restrizioni dei tempi della discussione per abbattere l’ostruzionismo delle opposizioni. Sono ricorse fino all’aggressione fisica in aula di un deputato. Non hanno prestato il minimo ascolto alle voci dissenzienti che si sono sollevate dalla società civile, da presidenti di Regione appartenenti ai partiti di maggioranza, come il calabrese Occhiuto, dalla stessa chiesa Cattolica, dalle maggiori organizzazioni sindacali, per la precisione Cgil e Uil con il significativo silenzio della Cisl, dalle tante manifestazioni di piazza che si sono succedute in questi mesi.

Ma sarà vera vittoria? Abbiamo più di una ragione per dubitarne. La lotta contro lo stravolgimento della Costituzione è solo agli inizi. Il Ddl sul premierato dovrà sottostare ad una nuova deliberazione fra non meno di tre mesi sia della Camera che del Senato. Se non raggiungerà la maggioranza dei due terzi dei componenti ciascuna delle due Camere, potrà essere sottoposto a referendum con la richiesta di un quinto dei parlamentari di una Camera (o da 500mila elettori o cinque Consigli regionali).

Un referendum cruciale per le sorti della nostra Repubblica. Che non prevede il quorum – il che elimina dalle mani della maggioranza l’arma dell’astensione – e che è assolutamente necessario. Una legge che dice di volere fare eleggere il presidente del Consiglio dal popolo non può essere sottratta al giudizio del medesimo tramite referendum.

Sappiamo che sono già in atto tentativi di trovare soluzioni compromissorie che possano allargare il numero dei votanti per superare i due terzi, ma finora non hanno trovato alcun successo. Anche perché l’obiettivo della Meloni è di cancellare le basi antifasciste della Repubblica, e per farlo ha bisogno di una modifica profonda della Costituzione che stravolga l’equilibrio dei poteri. Per questo le serve un pronunciamento popolare. Questo è il senso della sua famosa dichiarazione “O la va o la spacca”.

Accettiamo la sfida, convinti che abbiamo la possibilità di vincerla. Ma da subito bisogna agire contro la legge Calderoli. Appena sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale sarà possibile e necessario avviare due strade. La prima sta nelle possibilità delle Regioni, in base all’articolo 127 secondo comma della Costituzione, di sollevare in via diretta la questione della legittimità costituzionale davanti alla Consulta entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge. Più di un presidente di Regione si è già dichiarato pronto a farlo.

La seconda strada è quella di raccogliere le firme entro il 30 settembre per un referendum abrogativo. Si tratta di 500mila, anzi qualche decina di migliaia in più per avere un congruo margine di sicurezza a fronte di possibili errori o incompletezze nella compilazione dei moduli. Oppure – e le due vie non sono in alternativa – la richiesta di referendum può essere presentata da cinque Consigli regionali. Questa seconda possibilità acquista maggiore importanza quanto minori sono i giorni che ci separano dal 30 settembre.

Finora quattro presidenti di Regione si sono dichiarati favorevoli a un simile atto, ovvero De Luca (Campania), Emiliano (Puglia), Giani (Toscana) e Todde (Sardegna). All’appello manca ancora Bonaccini per l’Emilia Romagna, il quale si nasconde dietro il fatto che lascia la carica per il Parlamento europeo. Ma è una scusa che non vale. Per la legge sui referendum (352/1970) la richiesta è di competenza del Consiglio regionale. Come hanno osservato Massimo Villone e Francesco Pallante su il manifesto, l’assemblea rimane in vita fino alle successive elezioni, quindi in grado di deliberare sia per il ricorso diretto alla Consulta, sia per aggiungersi alla richiesta di referendum.

Vi è chi teme che la Corte possa pronunciarsi per l’inammissibilità del quesito referendario poiché il Ddl Calderoli è stato collegato dal governo alla legge di Bilancio. Ma è lo stesso ministro ad avere sostenuto che vi è invarianza di spesa. Il collegamento quindi è solo strumentale. Né si può dire che il Ddl Calderoli sia indispensabile per attuare la Costituzione, visto che intese con le Regioni si possono fare anche solo in base all’art.116 comma 3 della Costituzione.

È certamente vero che negli ultimi anni la Corte Costituzionale ha dato un’interpretazione tendenzialmente restrittiva delle possibilità di ricorso al referendum, ma un orientamento giurisprudenziale non è un vincolo di legge e può essere contrastato in modo vincente se da subito le Regioni si muovono, comincia la raccolta di firme e si alimenta un dibattito costituzionale e giuridico sul tema. Se insomma da diverse parti risulta chiara la volontà di un pronunciamento popolare su una legge che mina l’unità del paese.

In questa direzione si sta già muovendo la rete di organizzazioni, fra cui la Cgil, che compongono la Via Maestra.

 

 
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