Il lavoro che cambia: cosa ci dicono le migliaia di dimissioni volontarie - di Nicola Atalmi

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Negli Usa gli hanno dato un nome d’effetto “the Great Resignation”. È l’ondata anomala di dimissioni volontarie di più di 4 milioni di lavoratori a partire dalla fine del 2021. In maggioranza lavoratrici e lavoratori specializzati e in carriera, intorno ai 40 anni, che rivedendo le proprie priorità accettano serenamente di affrontare periodi di non lavoro o di lavori meno impegnativi in cambio di una maggiore disponibilità di tempo libero. Una specie di rifiuto del lavoro o di sciopero della carriera che gli osservatori ritengono legato alle conseguenze della pandemia, ma anche a ripensamenti esistenziali generazionali.

Anche nel nostro paese stiamo assistendo a movimenti inattesi nel mercato del lavoro. Con la fine del blocco dei licenziamenti ci si attendeva una impennata di licenziamenti, che ci sono stati, ma nella norma fisiologica storica per la fine di un blocco di legge. Invece abbiamo assistito all’impennata delle dimissioni volontarie: +35% sul 2020 e +29% sul 2019.

Con il famigerato jobs act renziano sono state introdotte le dimissioni telematiche per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco, in particolare delle donne. Pur essendo possibile agire da sé sul portale del ministero, lavoratrici e lavoratori si rivolgono alle sedi sindacali per dimettersi, e ciò ci permette di incrociarli spesso per la prima volta. Innanzitutto ciò ci permette di scongiurare le false dimissioni imposte dal datore di lavoro, ma nella stragrande maggioranza si tratta proprio di dimissioni volontarie.

Nel nostro paese il fenomeno può essere descritto più come una riorganizzazione del mercato del lavoro in base alle mutate esigenze e priorità del lavoratore che a un rifiuto del lavoro e della carriera, come negli Usa o nel caso cinese del Tang Ping (rimaniamo sdraiati), una vera e propria protesta politica di massa contro l’estrema competitività del sistema economico.

In Italia la maggior parte di chi si dimette lo fa in modo volontario e consapevole e si ricolloca molto velocemente, spesso anche nello stesso settore. Ci sono novità che dovrebbero interessare il sindacato: la prima è rappresentata dal numero così alto in una congiuntura economica incerta; la seconda è che questo movimento non avviene unicamente sulla base di una valutazione di aumento salariale, ma anche su altre valutazioni che in passato avevano meno peso.

Storicamente abbiamo un picco di dimissioni volontarie quando c’è una situazione economica particolarmente espansiva ed un mercato del lavoro molto dinamico, con una domanda sostenuta che permette al lavoratore di scegliere la migliore tra più opzioni. Nel 2022 non ci troviamo in una fase così positiva, pur considerando la specificità del sistema economico del nord e in particolare del Veneto, in netta ripresa post crisi pandemica, a cui si aggiunge il riassestamento del sistema economico e del mercato del lavoro dopo lo shock pandemico. La pandemia non ha impattato nello stesso modo tutti i settori, ma ha visto settori in crisi e settori che invece sono cresciuti: come sempre la crisi non è crisi per tutti.

Quindi, al netto delle scosse di assestamento post pandemico, cosa sta accadendo al mercato del lavoro e cosa si cela dietro il fenomeno delle dimissioni di massa? Con una battuta la risposta sarebbe piuttosto facile: il mercato del lavoro si chiama così perché è un mercato e quindi si basa sulla regola della domanda e offerta. Le donne e gli uomini che vengono a dimettersi, interrogati sulle motivazioni, molto spesso ci parlano di situazioni di stress da rientro al lavoro dopo lo smart working o di tensioni in relazione al green-pass. Molti, in particolare donne lavoratrici con carichi familiari, cercano occupazioni con orari migliori o più vicine a casa. C’è una disponibilità ad accettare lavori a tempo determinato pur di lasciare un lavoro che non soddisfa anche a tempo indeterminato.

I giovani poi sono un caso nel caso. Se nelle generazioni precedenti il lavoro rappresentava ancora saldamente uno strumento di realizzazione ed emancipazione sociale, i giovani che entrano nelle aziende oggi sanno che nemmeno con due stipendi, senza altri aiuti, potranno costruire ed avere quello che hanno avuto i loro genitori, e che comunque la prospettiva è quella di lavorare per 50 anni per poter andare in pensione. Forse davvero siamo davanti alla prima generazione che sperimenterà un impoverimento complessivo rispetto alla generazione precedente: una inversione di tendenza socialmente devastante. Quindi l’approccio al lavoro diventa più utilitaristico, quasi disincantato. Si cambia lavoro più frequentemente senza grandi traumi e non si escludono nemmeno passaggi al lavoro autonomo o anche periodi di inoccupazione, utilizzando gli ammortizzatori sociali in modo consapevole. Il lavoro salariato tipico ha perso la funzione di emancipatore sociale e, venendo a mancare una credibile prospettiva di rivendicazione collettiva di migliori condizioni o salari, la soluzione individuale rimane unica via di uscita. Difficile dargli torno e fargliene una colpa.

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