Italo Calvino e la giornata di un letterato impegnato. Nel centenario della nascita - di Giorgio Riolo

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I centenari sono stati recentemente l’occasione per riproporre all’attenzione del vasto pubblico, italiano e non, scrittori e intellettuali come Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini, Beppe Fenoglio, don Lorenzo Milani (nella veste qui anche di un classico della letteratura italiana).

In questo breve intervento si rende onore a Italo Calvino (1923-1985), appunto nel centenario della nascita. E lo si fa soffermandoci sul romanzo breve “La giornata di uno scrutatore”. Opera apparentemente minore dello scrittore, ma molto significativa. Per tante ragioni. Non ultima poiché ci restituisce uno dei tratti distintivi della stagione letteraria di cui si rende conto più avanti. La vita personale del protagonista è immediatamente connessa con la vita collettiva. Individuo e società, sfera privata e sfera pubblica, non così nettamente separate, nessuna fatta risaltare a scapito dell’altra.

Oggi le cose stanno diversamente. Riflesso letterario, e culturale in generale, nel contesto di un’epoca ormai prigioniera della cultura dell’io, della cultura del narcisismo, del consumo narcisistico, della cultura del corpo ecc.

Questo romanzo breve costituisce un punto di svolta, una cesura, ma al contempo un ponte nell’attività letteraria di Calvino. Registra anche un mutato atteggiamento politico, filosofico e morale dell’autore.

La vicenda personale di Amerigo Ormea, giovane intellettuale comunista, che entra come scrutatore alla Casa della Divina Provvidenza Cottolengo nel mattino piovoso del 7 giugno 1953 e ne esce a fine giornata, a fine scrutinio, profondamente scosso, trasformato, si inserisce nel più vasto tornante storico italiano del regime democristiano ormai affermatosi dopo il fatidico 1948. In quella occasione Italo Calvino passò una decina di minuti nell’ospizio per gli infelici di Torino, in qualità di candidato nelle liste comuniste.

Quella tornata elettorale ebbe un esito inatteso e sventò la cosiddetta “legge truffa”. È la legge elettorale, antesignana del maggioritario imposto in Italia dal 1993, che la Dc riuscì a far votare in Parlamento appunto nel 1953 e che assicurava, alla coalizione che avesse ottenuto il 50 più uno per cento dei voti, i due terzi (quasi il 70%) dei seggi.

Quella legge allarmò le opposizioni. Fu uno scontro violentissimo, in un contesto ormai di restaurazione, tra fine anni quaranta e prima parte degli anni cinquanta, dopo la Liberazione e le attese e le speranze, ampiamente disattese, di trasformazione sociale e politica dell’Italia. In piena guerra fredda, il contesto più vasto su scala mondiale, con l’Italia subalterna agli Usa e alla Nato.

L’assistere a come la Dc usasse persone minorate, rattrappite nella deformazione fisica e mentale, accompagnate, e sostituite nell’atto del voto, da solerti galoppini e attivisti, preti e suore, per ottenere voti garantiti, suscitò in Calvino l’orrore, l’indignazione, il violento impulso a scrivere un pamphlet antidemocristiano senza appello. Tuttavia ci vollero dieci anni prima che lo scrittore oggettivasse per iscritto tutto ciò.

“La giornata di uno scrutatore” fu scritto nel 1963. Dopo un’altra esperienza al Cottolengo, questa volta di due giorni come scrutatore vero e proprio nelle elezioni amministrative del 1961. Ma nel mezzo la storia e la dinamica politica si incaricarono di accelerare un ripensamento profondo di Calvino. È la crisi politica di molti intellettuali decisamente schierati a sinistra, comunisti e non, che passano attraverso l’amara esperienza dello scontro Pci-Togliatti-Vittorini e la fine del “Politecnico” nel 1947, della concezione della subordinazione della cultura alla politica, alle esigenze del partito ecc., al disvelarsi delle colpe e delle nefandezze dello stalinismo e soprattutto di intellettuali che passano attraverso il trauma dei fatti d’Ungheria dell’ottobre 1956. Alla luce di quel trauma Calvino rimarrà “compagno di strada” dei comunisti, ma non si iscriverà più al Pci. Il romanzo breve riflette anche questo profondo mutamento.

La denuncia delle nefandezze democristiane si scolora in un più generale ripensamento di Amerigo Ormea. A contatto con quella umanità sofferente, le certezze granitiche che gli vengono dalla rigorosa formazione marxista, e sullo sfondo dalla matrice illuministica, essendo l’illuminismo il retroterra della fiducia nell’operare umano, nella perfettibilità umana e storica, nel progresso e quindi nella promessa di felicità, vacillano. Non per sfociare in una deriva irrazionalistica, nichilistica.

Occorre acquisire un di più, oltre le sicumere intellettuali e morali di chi si crede nel fronte avanzato della storia. Il di più della vera dimensione dell’umano, vale a dire il di più dell’amore. La ragione non è smentita, non è soppressa, anzi. Semplicemente per capire l’universo Cottolengo (l’infelicità di natura, il dolore, la responsabilità della procreazione) essa deve cedere il posto a un’altra dimensione umana.

Occorre un atto d’amore. E Ormea-Calvino questo atto d’amore lo vede espresso, in modo inconsapevole e spontaneo, nella suora che assiste questi infelici, nel silenzioso padre contadino, come spesso sono i contadini rispetto ai più sicuri e ciarlieri cittadini, che schiaccia le mandorle e le dà, con atto quasi sacro perché non studiato, non riflettuto (ricordiamo il servo, il mužik Gherasim nei confronti di Ivan Ilič malato ne “La morte di Ivan Ilič” di Tolstoj?) al suo ragazzo deforme con cui passa alcune ore. Ore silenziose, tra padre e figlio infelice, nel giorno consacrato al riposo, alla domenica.

Italo Calvino, questo “scoiattolo della letteratura”, come lo definì Pavese, fu un grande letterato, un grande intellettuale. Il suo illuminismo conviveva con la una fervida vena fantastica, sorprendente. Con la sua rapidità nel cambiare registro letterario, dal realismo-neorealismo del romanzo sulla Resistenza “Il sentiero dei nidi di ragno” e dei racconti di “Ultimo viene il corvo” a opere come quello del ciclo di Marcovaldo, de “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante”, “Il cavaliere inesistente”, de “Le città invisibili”, del “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. A opere come la sistemazione e la rielaborazione delle “Fiabe italiane”.

Infine la sua attività saggistica è importante e rimane un monumento della critica e della teoria letteraria italiane (vedi le raccolte “Una pietra sopra”, “Perché leggere i classici e le lapidarie e finali “Lezioni americane”, uscite postume, scritte per il ciclo di conferenze presso un’università Usa e che l’autore non poté rivedere a causa della morte improvvisa per ictus del 1985).

Calvino rientra nel novero di quegli letterati e intellettuali italiani “impegnati”, di quella grande stagione di fervore intellettuale e politico, dopo il passaggio traumatico del fascismo e della guerra, scaturita dalla “Nuova Italia” della Resistenza, della Liberazione, delle grandi speranze di cambiamento, di trasformazione complessiva della vita, dalla vita quotidiana alla vita politica e culturale. La stagione di letterati e di intellettuali come Pavese, Vittorini, Primo Levi, Carlo Levi, Fenoglio, Ginsburg, Morante, Sciascia, Pasolini, Silone, Bassani, Jovine, Alvaro ecc. ecc.

Egli stesso ha reso letterariamente in modo impareggiabile quella stagione, quel contesto, quel fervore, nella Prefazione alla edizione del 1964 del suo romanzo sulla Resistenza “Il sentiero dei nidi di ragno”, pubblicato nel 1947. Un capolavoro la Prefazione nella resa della tensione morale e intellettuale di quella Italia, dalla vita quotidiana alla vita politica e culturale.

Calvino è stato inoltre uno dei pilastri di quel irripetibile mondo culturale attorno alla casa editrice Einaudi e contribuì, tra le altre cose, a far pubblicare e a far conoscere le opere di Beppe Fenoglio e di Leonardo Sciascia.

Due ultime considerazioni. Tra le “Lezioni americane” una è dedicata alla ‘leggerezza’, proprio per capire la stoffa, la peculiare vena letteraria e civile del nostro. Ma è la leggerezza invocata da chi ha avuto a che fare per tutta la vita con la politica, con i problemi sociali e culturali, con lo spirito del tempo. Non è al pari della dilagante, onnipervasiva leggerezza postmoderna, dissacrante, comoda. La leggerezza del “fa chic e non impegna” di molta cultura e di molta letteratura, a destra e a sinistra ecc.

Un ammonimento ci viene, come lascito, a proposito dei classici della letteratura. Alla maniera sua, “Perché leggere i classici è meglio che non leggere i classici”.

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