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La vicenda autostrade ha un valore in sé ed è emblematica dello scontro politico e sociale sul ruolo del pubblico e dello Stato. Come e più di altre privatizzazioni, quella delle autostrade ha dimostrato il fallimento del mercato.
La revoca della concessione ai Benetton è un atto dovuto, quanto tardivo, per le evidenti inadempienze, i gravi danni, le responsabilità oggettive nel disastro e nella tragedia del crollo del ponte Morandi e non solo. Il privato ha goduto di smisurati profitti gestendo a suo piacimento un’infrastruttura nevralgica come la rete autostradale, un monopolio naturale che deve tornare ad una completa gestione pubblica. Non è accettabile il ricatto che si leva, dall’azienda e da molti “giornaloni”, sull’occupazione. Tutti i lavoratori devono essere tutelati passando all’azienda pubblica che dovrebbe gestire la rete autostradale secondo le regole del bene comune e non del profitto. Sarebbe un gravissimo errore ogni ulteriore compromesso verso attori privati che non hanno dimostrato rispetto né delle condizioni contrattuali, né del valore sociale dei beni pubblici, né della salute e del benessere delle persone.
È ora di cambiare radicalmente il pensiero unico che ha dominato la vita politica, economica e sociale di questi trent’anni: il pregiudizio ideologico – e i concreti interessi della finanza e del capitale - secondo cui l’innovazione, l’efficienza e la modernità sono per natura dei privati, mentre pubblico significherebbe inefficienza e sperpero. La storia ci consegna un’altra realtà. Lo Stato ritorni ad esercitare la sua centralità e la sua funzione.
La sinistra di governo, corresponsabile delle tante privatizzazioni, dei tagli alla sanità e all’istruzione pubblica, subalterna e complice delle grandi imprese, dei poteri economici privati, le vere caste, deve cambiare radicalmente visione del futuro. Purtroppo le uscite di alcuni autorevoli esponenti del Partito democratico non lasciano molta speranza sulla capacità di proporre la svolta necessaria ad affrontare le sfide che anche la pandemia ha evidenziato come ineludibili. Qualcuno propone persino il ritorno alle gabbie salariali! Un ritorno ad un passato che le lotte operaie e democratiche hanno definitivamente cancellato, offensivo non solo verso i lavoratori, ma totalmente subalterno all’ideologia leghista dell’autonomia differenziata. In un sol colpo si cancellano il principio di uguale salario per uguale lavoro e dell’unicità territoriale, sociale, economica del Paese; si enfatizzano e coagulano tutti i peggiori stereotipi sul Mezzogiorno che sarebbe per definizione perennemente “arretrato” e “in ritardo” e il cui destino sarebbe la definitiva sanzione di una totale separatezza. Un Paese di “serie B” – come già spesso accade in molte aree per i servizi pubblici e la sanità – dove lo Stato non dovrebbe concentrare investimenti, innovazione, creazione di lavoro, ma sancire, con il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici, una cronica sudditanza al Nord “efficiente” ed “europeo”.
In un simile scenario – aggravato dal pantano politico in cui sguazza la maggioranza, dove molti non trovano di meglio che appellarsi a Berlusconi… – l’unica forza organizzata capace di orientare la lunga e difficile uscita dalla crisi è il sindacato confederale, a partire dalla Cgil. Che deve confermare, oggi più che mai, la sua piena e totale autonomia e la radicalità della sua visione strategica contenuta nella Carta dei Diritti universali del lavoro e nel Piano del lavoro, da far vivere con determinazione come strumento vertenziale per creare lavoro di qualità in risposta ai bisogni essenziali del Paese.
La riduzione dell’orario a parità di salario è obiettivo dell’oggi, non del domani, sia come strumento difensivo di fronte alle enormi difficoltà di molti settori produttivi, sia come strumento strategico della necessaria redistribuzione del lavoro nell’intreccio tra innovazione tecnologica, riconversione ecologica delle produzioni, valorizzazione dei servizi e dei beni comuni, ripensamento della scansione dei tempi di vita e di lavoro, dell’organizzazione della mobilità e delle città, della formazione permanente e dei servizi di cura, da distribuire omogeneamente su tutto il territorio. Non possiamo continuare ad essere tra i Paesi europei con la disoccupazione giovanile tra le più alte, l’orario di lavoro più lungo e i salari tra i più bassi. Creare e redistribuire il lavoro agendo sugli orari e la condizione lavorativa è guardare al futuro, utilizzando le risorse oggi destinate alla cassa, ai sussidi vari, per finanziare il diritto al lavoro e alla cittadinanza. Partendo dalla precondizione dell’estensione almeno fino alla fine dell’anno del blocco dei licenziamenti, e della copertura generalizzata degli ammortizzatori sociali.
Allo stesso tempo bisogna redistribuire la ricchezza e aumentare sia i salari reali che la quota del salario sull’insieme del reddito. È centrale una riforma del fisco in termini di maggiore progressività, con una riduzione strutturale delle tasse su lavoro e pensioni, al di là di una misura temporanea di defiscalizzazione degli aumenti contrattuali, che non copre tutta la platea dei nostri rappresentati. La progressività della tassazione deve riguardare tutti i redditi, compresi quelli immobiliari e finanziari e i redditi d’impresa, che, negli ultimi 30 anni, sono stati costantemente privilegiati in ossequio alle politiche neoliberiste, diventate pensiero unico della politica. Una tassazione sulle grandi ricchezze è altrettanto ineludibile, per l’oggi e per il domani, in un Paese che è diventato tra i più diseguali del mondo, e dove la concentrazione della ricchezza ha poco da invidiare agli Stati Uniti o ai Paesi dell’America Latina.
Se questo è il nostro programma non c’è alleanza possibile con una Confindustria e un padronato conservatori che vogliono la restaurazione sociale, cancellare il Ccnl, aumentare la produttività attraverso lo sfruttamento della manodopera e l’estensione dei contratti a termine, e continuando lo “sciopero” degli investimenti. Vogliono dividere il mondo del lavoro e il Paese.
Da parte sua il governo tentenna e si divide sul fronte dei diritti sociali, su una nuova politica per l’immigrazione e la cancellazione dei decreti sicurezza, mentre continua la tendenza allo svilimento del ruolo del Parlamento.
Il prossimo referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari – la cui data di svolgimento è stata erroneamente e pericolosamente accorpata a quella delle elezioni regionali e amministrative – deve vedere una chiara presa di posizione per il “No” del nostro sindacato, in piena continuità con le posizioni assunte nel referendum del 2016, e con il nostro profondo radicamento sui valori di partecipazione democratica sanciti dalla Costituzione repubblicana.
Non usciremo positivamente da questa difficilissima fase senza rafforzare il sindacato confederale, e la sua capacità di riunificare e rappresentare più e meglio il mondo del lavoro. C’è bisogno di una Cgil coesa e forte nella sua democrazia plurale, nel saper maggiormente coinvolgere e rendere protagonista tutto il suo gruppo dirigente attraverso i suoi organismi, le Rsu e i delegati, fattore indispensabile per sostenere, con i necessari rapporti di forza, la conquista degli obiettivi della nostra piattaforma.
La soluzione del caso Autostrade (Aspi), con una operazione governativa che rivendica l’interesse pubblico su un bene – 3.000 chilometri di rete stradale - dato in concessione ma sempre restato di proprietà statale, continua ad essere vista con sospetto. Non soltanto dall’opposizione di destra, ma anche dal “generone” che si autodefinisce liberale e non ideologico. Ma che di una ideologia - quella privatista – è trombettiere da 30 lunghi anni.
A loro ha risposto il prof universitario (di diritto privato) Giuseppe Conte: “Il governo ha affermato un principio, in passato calpestato: contestare le gravi violazioni contrattuali e la cattiva gestione di Aspi, e impedire che i privati possano continuare ad avvantaggiarsi di una concessione squilibrata a loro favore”.
Ora ci sarà da lavorare, osserva il vicesegretario dem Andrea Orlando: “Tempi, costi, condizioni e strumenti pubblici utilizzati, una volta messi nero su bianco, andranno analizzati con attenzione”. Ma aggiungendo: “Ho trovato ridicole le grida di dolore di opinionisti e politici perché ‘in Italia non verranno più gli investitori’. Gli investitori non vengono perché ci sono le mafie, la corruzione, una Pa lenta e macchinosa e altro ancora. Con gli utili delle autostrade, a fronte di un rischio di impresa praticamente nullo, gli investitori si trovano anche su Marte”.
Certo per ricostruire un ruolo per lo Stato in economia, annota Tommaso Nencioni sul manifesto, ci vuole cura e attenzione: “Significa non solo garantire servizi migliori ai cittadini, ma anche organizzare centri di controllo da cui esercitare quotidianamente il potere democratico. Lo Stato, infatti, può essere tanto strumento di innovazione sociale, tecnologica ed ecologica, come ridursi ad un ruolo ancillare rispetto a quegli stessi interessi che sarebbe bene colpire. Questo dev’essere oggetto di lotta politica e di controllo democratico”.
Quando i giovani si affacciano al mondo della politica, vengono travolti da un duplice ordine di accuse: da un lato li si accusa di essere degli illusi, dall’altro di essere alla ricerca di un qualche potere o di una qualche poltrona. Queste accuse si sono moltiplicate per quel migliaio di ragazzi che, a partire dal dicembre 2019, si sono iscritti a “NOstra – il comitato giovanile per il No al referendum costituzionale”.
Eppure le ragioni del No valgono soprattutto per i giovani. Si tratta, infatti, di far capire come il taglio dei parlamentari, congiuntamente ad altre operazioni di indebolimento indiretto della democrazia rappresentativa (l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ad esempio), vada ad impattare sulle possibilità democratiche della generazione che erediterà questo sistema.
Le nuove generazioni infatti sembrano essere strette in una morsa. La crisi del parlamentarismo e dei partiti di massa ha un duplice effetto, che però ha la medesima fonte. Il processo di deregulation economica iniziato negli anni ‘90 ha avuto come effetto principale quello di distruggere le strutture di intermediazione di ogni sorta. Tutto sembrava essere a portata di mano. Questo stesso processo ha investito anche la politica. Le strutture di mediazione come i partiti, i sindacati, le associazioni, sono state spazzate via da questa onda, accolta con gioia anche da una certa sinistra. “Fine della Storia”, celebrata con reverenza dalle vestali del liberismo più sfrenato.
A cosa ha portato questo processo? Ha portato a quella “gabbia di durissimo acciaio”, per dirla con Max Weber, in cui i giovani che si affacciano al mondo della politica sono incastrati. Se non è più il Parlamento a legiferare, se non sono più i partiti a farsi “parte” e rappresentare le istanze del cosiddetto “popolo”, allora sarà qualcun altro a farlo, e questo è inevitabile nel mondo a somma zero della politica.
Negli ultimi anni infatti abbiamo assistito alla crescita ipertrofica di movimenti nazionalisti e populisti, nei quali il leader ricerca un rapporto immediato con il popolo, inteso nella sua totalità, senza considerare i conflitti che lo attraversano. Una società liquida che si solidifica attorno ad un autoproclamato capo.
In questa congiuntura, l’atto legislativo segue le logiche dell’autorità carismatica. Il cittadino torna suddito. Se tutto è popolo niente è popolo, e dunque nessuno è cittadino. Dall’altro lato, per dirimere le difficoltà della politica e le sue incapacità a stare al passo con la velocità del processo economico, ci si è spesso affidati al mondo tecnico-amministrativo, in barba ad ogni legittimità democratica. “La competenza ci salverà”. Vero, forse, nel lungo termine, “ma nel lungo periodo siamo tutti morti”.
Ci troviamo dunque davanti ad un problema, che la crisi del Covid-19 ha manifestato plasticamente: la decisione, momento costitutivo della politica, si trova o nelle mani di un capo che parla direttamente al “popolo” (Dpcm, conferenze stampa) oppure nei gangli del sistema tecnico-amministrativo (Task-force, Comitato tecnico-scientifico). In uno scenario del genere l’accesso alla politica per i giovani sarà necessariamente problematico, e non può prescindere dalla difesa di quel che resta del sistema parlamentare, nell’ottica di un suo rilancio. È questa la linea d’azione di “NOstra”, che vuole essere generazionale in questo senso. L’opposizione a questa scellerata riforma costituzionale, infatti, rientra in un più ampio progetto di promozione della democrazia rappresentativa e costituzionale. Difendere un’idea di democrazia, inoltre, è fondamentale per cercare di risolvere la questione sociale del Paese, che emerge oggi in tutta la sua importanza.
Il punto è rifiutare, da un lato, una visione paternalistica in virtù della quale un “capo” si prende cura dei suoi sudditi e, dall’altro, l’idea economicista di cui si nutre una certa burocrazia, in virtù della quale il benessere della popolazione può essere misurato sull’aumento del Pil.
In questa congiuntura infatti bisogna necessariamente aumentare gli spazi di democrazia, piuttosto che ridurli e, congiuntamente, agire nella direzione di un ricambio della classe dirigente, superando le metodologie di cooptazione. Perché, come ha scritto Gramsci: “chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere di impedire che altri la risolva, cioè ha solo il potere di prolungare la crisi stessa”.
Fondamentalmente Donatella Tesei, la governatrice leghista dell’Umbria, va “ringraziata”. Infatti la sua scelta di cancellare una delibera della vecchia giunta Marini (arrivata peraltro dopo anni di attesa) che consentiva il ricorso alla Interruzione volontaria di gravidanza farmacologica – con la pillola RU486 – in regime di day hospital, ha avuto un effetto decisamente dirompente. La decisione di imporre alle donne tre giorni di ricovero per poter utilizzare la RU è stata accolta con entusiasmo da gruppi ed esponenti politici dichiaratamente contro l’aborto, in testa il senatore leghista Simone Pillon. Ma ha al tempo stesso provocato una reazione potente e senza precedenti – almeno nei tempi più recenti - di movimenti femministi e associazioni per i diritti delle donne, che in poco tempo si sono riuniti creando la ‘RU2020’ - Rete umbra per l’autodeterminazione.
La prima uscita della nuova rete, il 21 giugno a Perugia, sotto lo slogan “libera di scegliere, questa è la mia vita, la RU la voglio garantita”, è stata un trionfo: una piazza IV Novembre stracolma di donne, molte giovanissime, e uomini, che hanno mandato – nonostante la pioggia - un messaggio forte e chiaro alla giunta Tesei, ma anche al governo e all’Aifa (Agenzia italiana del farmaco).
La delibera della Regione Umbria fa infatti riferimento alle indicazioni emanate dal ministero della Salute nel 2010, che prevedono la somministrazione della pillola abortiva entro la settima settimana di gravidanza, con un ricovero ospedaliero di tre giorni, a differenza dell’aborto chirurgico che si risolve in una giornata. La presidente Tesei ha sostenuto che la delibera ha lo scopo di tutelare la salute delle donne, ma la ‘RU2020’ ha prontamente risposto che le donne non necessitano di “tutela”, ma di avere garantiti i diritti previsti dalla legge, senza ostacoli posti ad arte lungo il loro percorso. Ancora oggi, in Umbria, solo tre ospedali su undici fanno ricorso all’aborto farmacologico.
Le donne che sono scese in piazza a Perugia il 21 giugno non hanno solo rivendicato il diritto all’Ivg farmacologica fino alla nona settimana e senza ricovero, ma hanno chiesto anche la piena applicazione della legge 194, contraccezione gratuita e potenziamento dei consultori. Secondo l’ultima relazione del ministero della Salute sulla legge 194, infatti, risulta obiettore di coscienza il 69% dei ginecologi, il 46,3% degli anestesisti, e il 42,2% del personale non medico. Le donne che vivono in aree dove le percentuali sono più alte sono costrette a spostarsi per accedere al servizio, specialmente per l’aborto oltre il primo trimestre.
Dalla piazza di Perugia dunque la mobilitazione delle donne – partita “grazie” alla delibera della giunta Tesei – si è allargata a livello nazionale. Il 2 luglio la rete ‘RU2020’, insieme all’associazione Rete italiana contraccezione e aborto Pro-Choice e a molte altre realtà, ha manifestato a Roma, sotto la sede del ministero della Salute, consegnando dalle mani di una giovane studentessa di Terni circa 80mila firme che chiedono l’Ivg farmacologica in day hospital in tutta Italia fino alla nona settimana, e risposte su contraccezione gratuita e rafforzamento dei servizi consultoriali. Intanto, dopo la richiesta di parere del Consiglio superiore di Sanità da parte del ministro Speranza, si attende l’aggiornamento delle linee guida, vecchie di ormai dieci anni.
Insomma le donne della ‘RU2020’, e tutte le donne che hanno a cuore la propria autodeterminazione, devono in un certo senso “ringraziare” la presidente Donatella Tesei, per aver permesso loro di riportare all’attenzione nazionale i diritti delle donne e la loro libertà di scelta. La decisione del governo leghista umbro è infatti una scelta politica, e politica deve essere la risposta. È tempo che le istituzioni di questo Paese, governo in primis, ci facciano uscire dall’arretratezza in cui siamo da troppo tempo confinate, e prendano provvedimenti nel rispetto dei diritti sessuali e riproduttivi, che sono diritti umani.