Riapertura delle scuole a settembre, ancora molti dubbi e poche certezze - di Raffaele Miglietta

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L’ultimo rapporto Istat afferma che “l’istruzione rappresenta uno strumento essenziale per l’emancipazione degli individui attraverso il lavoro”. Ma, prosegue l’Istat, “l’Italia presenta livelli di scolarizzazione tra i più bassi dell’Unione europea, purtroppo anche con riferimento alle classi d’età più giovani”. Con la conseguenza che “il basso grado di conoscenza pesa sul potenziale di crescita della nostra economia, sia attraverso effetti strutturali sulla specializzazione del nostro paese, sia attraverso uno scarso contributo della produttività totale dei fattori”.

La sospensione delle attività scolastiche negli ultimi mesi – causa emergenza Covid-19 - e i forti problemi per la ripartenza a settembre, rischiano di aggravare il quadro già fosco sopra delineato. Speravamo che dapprima lo sciopero nazionale dell’8 giugno (proclamato unitariamente dalle organizzazioni sindacali di categoria), poi le manifestazioni del 25 giugno in decine di piazze italiane (promosse dal comitato “Priorità alla scuola” con il sostegno della Flc Cgil), che hanno fortemente attirato l’attenzione del Paese, fossero servite a scuotere il governo.

Un governo che però non pare abbia ancora pienamente realizzato che quanto fatto finora è del tutto inadeguato per consentire di riaprire la scuola a settembre, in presenza e in sicurezza. Basti pensare che dei 155 miliardi di euro che il “decreto rilancio” destina complessivamente (comprese le garanzie finanziarie) agli interventi necessari alla ripartenza del Paese, solo 1,4 miliardi sono riservati al sistema scolastico pubblico. Tale cifra dà l’idea non solo della scarsa considerazione che la compagine governativa ha dell’importanza della scuola per il futuro del Paese, ma anche della sottovalutazione dei problemi e delle difficoltà che le scuole sono chiamate a risolvere prima dell’avvio del nuovo anno scolastico.

Per riavviare le attività didattiche in presenza (abbandonando la discriminante e selettiva pratica della didattica a distanza), e allo stesso tempo assicurando condizioni di sicurezza ad alunni e lavoratori, occorre ampliare la disponibilità delle aule scolastiche, incrementare l’organico di docenti e personale Ata, dotare ognuna delle 8mila scuole italiane di tutti i dispositivi necessari a tutelare quotidianamente la salute (solo di mascherine ne occorrono 10 milioni al giorno!).

Per far questo non solo non bastano le risorse già stanziate (1,4 miliardi), ma non sono sufficienti neanche gli ulteriori finanziamenti (un miliardo) che il presidente Conte e la ministra Azzolina si sono precipitati a promettere, dopo le critiche piovute sul governo a seguito delle mobilitazioni sopra richiamate. Infatti per assicurare il distanziamento fisico di un metro tra un alunno e l’altro (come richiede il Comitato tecnico scientifico), a fronte di strutture scolastiche inadeguate e sovraffollate, in molti casi occorrerà sdoppiare le classi. Se questa esigenza dovesse riguardare “solo” il 20% delle classi, occorrerebbero da settembre almeno 150mila docenti in più, mentre con le risorse attualmente previste dal governo si potrebbero assumere appena 50mila docenti (ovvero 6/7 docenti per scuola), un numero ben distante dalle reali necessità. Senza contare tutte le altre spese per adeguare le strutture scolastiche, acquistare i dispositivi di sicurezza, ecc.

In assenza di ulteriori risorse restano solo due possibilità: tornare alla didattica a distanza (ma nessuno la vuole, a partire da alunni e genitori), oppure ridurre il tempo scuola e applicare i doppi turni. Con la conseguenza che, dopo aver compromesso l’anno scolastico appena concluso, si rischia di pregiudicare anche il prossimo.

Quello che invece la comunità scolastica continua ad auspicare è che l’emergenza sanitaria possa diventare l’occasione storica per risolvere alcuni dei problemi atavici della scuola italiana: stabilizzare il personale (per il prossimo anno scolastico si prevedono 200mila supplenze...); mettere in sicurezza le strutture scolastiche ed eliminare le classi sovraffollate (se le attuali classi fossero a norma non avremmo tutte queste difficoltà per assicurare il distanziamento); riconoscere stipendi dignitosi al personale (e non retribuzioni tra le più basse a livello europeo).

Insomma ciò che manca sono gli investimenti nel sistema scolastico, e un’idea di sviluppo del Paese che abbia il coraggio – e la lungimiranza - di scommettere sull’istruzione quale condizione per garantire uguaglianza, crescita e benessere per tutti. Ma, come diceva don Abbondio, “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Allora toccherà alla Cgil prendere coraggio per sé e per chi non ce l’ha, mettendo l’istruzione pubblica al centro del suo programma di lavoro e della sua azione rivendicativa.

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