- Redazione
- 2021
- Numero 05 - 2021
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Di fronte al dilagare della pandemia, il governo di Supermario Draghi non poteva che continuare nel solco delle misure del Conte II. Sono ridicole le pretese di “discontinuità” della ministra Gelmini per due giorni di anticipo nell’uscita del nuovo Dpcm. Inquietanti invece, nell’evidente spostamento a destra dell’asse politico, alcune delle nomine di sottosegretari (compreso il leghista Morelli, già vicino a Casa Pound) e dei nuovi commissari, tra cui un generale. Una scelta che fa riflettere: il Paese deve affidare alle forze armate la campagna vaccinale?
Senza dubbio sui vaccini c’è una grave ritardo e non si intravede alcun “cambio di passo”. La responsabilità primaria è della Commissione europea, che si è legata mani e piedi agli interessi delle multinazionali del farmaco, come denunciato con efficacia al Parlamento europeo dalla Sinistra del Gue/Ngl. La pandemia non ha insegnato niente. Men che meno potrà proporre un cambiamento un governo a guida tecnocratica-restauratrice come quello di Draghi, che nella prima uscita europea si è caratterizzato per negare una quota di vaccini ai Paesi più poveri, pur nell’ambito del progetto Covax che l’Ue si era impegnata a sostenere.
Non usciremo dalla pandemia e dalle ricorrenti varianti del virus senza la vaccinazione di tutte le persone in tutto il mondo, senza strutture sanitarie preventive e territoriali universali, senza un’industria pubblica, in Italia e in Europa, di vaccini, liberi da brevetti, come chiede l’Iniziativa dei Cittadini Europei. Un banco di prova dirimente per la Commissione europea e per il governo italiano, incapace perfino di tacitare le componenti negazioniste della sua maggioranza, incluso qualche presidente di Regione del Pd.
Il governo Draghi è chiamato anche alla prova delle misure economiche e sociali, dimostrando di non essere subalterno alla Confindustria e alle spinte corporative e lobbistiche. La pandemia va aggravandosi e purtroppo non finirà a breve, la priorità deve essere la salute di cittadini e lavoratori, con le chiusure necessarie, l’estensione della cassa integrazione e del blocco generalizzato dei licenziamenti fino alla fine di questo 2021.
I “sostegni” per le aziende, nei settori più colpiti come il commercio e il turismo, vanno commisurati a quanto dichiarato al fisco, evitando nuovi condoni, mascherati dietro il rinvio delle scadenze fiscali. C’è bisogno di una riforma fiscale progressiva, di lotta serrata all’evasione, della tassazione delle grandi ricchezze, per indirizzare risorse pubbliche verso il lavoro e lo stato sociale.
La Cgil e il sindacato confederale, in piena autonomia, devono riprendere la mobilitazione, sia per garantire la priorità della salute e del reddito per tutti, sia per stringere il governo al confronto sul “Piano di ripresa e resilienza”, ora diventato oggetto riservato del premier e dei suoi tecnocrati, anzi, peggio, di quelli della McKinsey. Non ci sono patti da realizzare ma obiettivi e diritti da conquistare. E’ in gioco il futuro del Paese, e della stessa qualità della democrazia.
“Ue e Italia in sintonia su Alitalia”, hanno titolato i quotidiani dopo l’incontro “positivo e costruttivo”, parola dei ministri Giorgetti, Franco e Giovannini, con Margrethe Vestager, vicepresidente della Commissione europea e commissaria per la concorrenza. Traduzione: si va verso lo “spezzatino” degli asset della compagnia aerea, lo vogliano o meno gran parte degli 11mila addetti diretti di Alitalia e i sindacati che li rappresentano. Solo piloti e assistenti di volo, il cosiddetto settore aviation, hanno già fatto sapere che si può fare, visto che il loro comparto passerebbe alla newco statale Ita, sia pur con una flotta ridotta a meno di 50 aerei dagli attuali 104, e con il rischio di perdere slot importanti, soprattutto all’aeroporto milanese di Linate. Ma gli altri?
Il confronto “tecnico” fra l’Ue e il governo Draghi sarà avviato in settimana, “per valutare nel dettaglio le possibili soluzioni volte a garantire che il nuovo vettore aereo nasca al più presto, nel rispetto delle procedure del diritto nazionale ed europeo”. Un passaggio, quest’ultimo, che fa capire per l’ennesima volta come, anche in piena pandemia e in un settore come quello del trasporto aereo messo ko dal virus, a Bruxelles si continui a ragionare con gli schemi “privatistici” del passato.
I sindacati confederali della categoria del trasporto aereo, Filt Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti, sono critici. Non accettano lo “spezzatino” degli asset, sul punto ricordano al governo: “Bisogna mettere Ita nelle condizioni di poter operare, l’ipotesi di una compagnia con 40-50 aerei ci lascia perplessi, se dobbiamo inserire la compagnia nel mercato deve poter competere con gli altri vettori”. Un ragionamento che non sembra avere contraddizioni. Ancor più espliciti i sindacati di base Cub e Usb: “Il solito piano della ‘miseria’: licenziamenti, smembramento e ridimensionamento. Altro che il rilancio promesso dagli ultimi due governi”. Più di due, a guardar bene.
L’8 marzo 1946 la “Giornata della Donna” fu commemorata in tutta Italia (l’Udi l’aveva celebrata l’anno prima nelle zone già liberate), e comparve per la prima volta il suo simbolo: la mimosa, tuttora un’immagine significativa per ricordare le lotte comuni delle donne. Quindi da 75 anni l’8 marzo rappresenta un appuntamento di mobilitazione per l’affermazione dei diritti delle donne, che si sono passate il testimone di generazione in generazione, portando avanti una politica di lotte e conquiste, costruendo relazioni tra donne per ottenere e difendere libertà legate al lavoro, alla maternità, alla salute, alla sessualità e all’autodeterminazione, contrastando ogni forma di discriminazione, di violenza e di tentativo di possesso dei loro corpi.
Ognuna di noi deve sentirsi riconoscente verso quelle donne che hanno contribuito, anno dopo anno, a ricordare e fare il punto sulle loro conquiste, a proporre ciò che ancora mancava, e manca, per la libertà e l’uguaglianza tra donne e uomini nella nostra società. E’ un dovere celebrare il tanto lavoro fatto dalle donne venute prima di noi, che ci permette oggi di godere di libertà e diritti che fino a un secolo fa non esistevano. Diritti che abbiamo, che spesso ignoriamo, o che non difendiamo abbastanza.
In questo mese di marzo ricorre anche il 75°anniversario del riconoscimento alle donne del diritto ad essere elette. Il Dl 74 del 10 marzo 1946 colmava una lacuna di cittadine dimezzate (il Dl 23 del 1° febbraio 1945 riconosceva alle donne solo il diritto all’elettorato attivo), e chiudeva positivamente un percorso culturale, giuridico e di lotta delle donne che era durato oltre un secolo. Le prime elezioni amministrative alle quali le donne furono chiamate a votare si svolsero dal 10 marzo 1946 in cinque turni, mentre le prime elezioni politiche, insieme al Referendum monarchia-repubblica, si tennero il 2 giugno 1946.
Avete mai pensato che se non ci fossero state le donne, con le loro tenaci battaglie di emancipazione e liberazione, attraverso un profondo intreccio con le associazioni, i movimenti, i sindacati, i partiti e le istituzioni, l’Italia oggi sarebbe un Paese arretrato?
Purtroppo, anche in occasione di questo 8 marzo, dobbiamo constatare con sconcerto e rabbia che il contatore della violenza maschile sulle donne non si è fermato; discriminazioni e violenze continuano ad essere esercitate nell’indifferenza generale della politica, e nella tolleranza collettiva, culturale e sociale, dell’intero Paese. La violenza maschile che annienta la dignità e spesso distrugge la vita delle donne si manifesta in vari modi: donne uccise, stuprate, sfigurate, segregate, emarginate, maltrattate, dimenticate, sfruttate, sottopagate, svilite, discriminate. Una violenza nutrita da una cultura del possesso e negazione dei diritti, da una cultura patriarcale e sessista che continua ad associare ruoli di prestigio e di potere agli uomini, e nel momento in cui le donne provano a farsi spazio le ostacola con pregiudizi, denigrandole.
Tante le azioni per arginare il fenomeno, ma la prevenzione della violenza sulle donne passa attraverso un cambiamento della società, dalla famiglia alla scuola, ai luoghi di lavoro e di aggregazione, modificando il linguaggio e gli stereotipi che ingabbiano donne e uomini. L’Italia non è ancora un paese per “donna”. Siamo in uno stato di emergenza, ma il paradosso è che questa “emergenza” è sistemica, perché ogni giorno vi sono notizie di femminicidi, violenze domestiche, discriminazioni, molestie e stupri.
La crisi in cui ci troviamo può riportare indietro le lancette della recente storia femminile, perché non esistono deleghe o tutele che possano garantirci da ritorni al passato e da tentativi di restaurazione. Non bisogna dare nulla per scontato, tanto meno i diritti delle donne e i diritti civili, che sono una conquista recente. Anzi dobbiamo proseguire il cammino di crescita, uguaglianza e difesa dei diritti che le donne prima di noi ci hanno affidato, e che vogliamo trasmettere alle nostre figlie e figli.
Ai più scettici diciamo che ormai è ampiamente dimostrato che i diritti delle donne sono i diritti di tutti, e vanno garantiti ed ampliati per costruire un mondo migliore; la democrazia cresce assieme ai diritti che garantisce: più cittadini vengono tutelati, più si rafforzano le libertà collettive, rendendo tutte e tutti noi più forti e sicuri, nel rispetto delle libertà fondamentali di ogni individuo. Abbiamo ancora tanta strada da fare per conquistare il futuro, e per questo continueremo a vigilare e lottare!
Il cambio di passo, da molti invocato con l’insediamento del nuovo governo Draghi, per la scuola ancora non si vede. Anzi nell’immediato ha significato un inasprimento delle misure per far fronte alle varianti del virus che, come affermato dagli epidemiologi, hanno forte diffusione proprio nella fascia dei ragazzi in età scolare (che fino a qualche tempo fa sembrava risparmiata). Per questo, con il nuovo Dpcm del 3 marzo 2021, è stata disposta la sospensione dell’attività scolastica e il ricorso alla didattica a distanza nelle regioni in zona rossa per tutte le scuole, comprese infanzia, primaria e medie, che fin qui erano rimaste in massima parte aperte. Inoltre il nuovo Dpcm ha stabilito la chiusura delle scuole anche nelle regioni in zona gialla o arancione che abbiano un numero di casi Covid-19 pari a 250 ogni 100mila abitanti, e viene data facoltà ai presidenti di Regione di sospendere localmente le attività scolastiche in presenza di un peggioramento del quadro epidemiologico.
Insomma con queste nuove disposizioni una parte significativa delle scuole resteranno chiuse, con un ritorno massiccio alla didattica a distanza per alunni e docenti. Così, esattamente a distanza di un anno dal primo lockdown, come in un micidiale gioco dell’oca, siamo tornati al punto di partenza, ovvero alla chiusura delle scuole, a quella che sembrava una misura del tutto eccezionale e momentanea. E che invece, a causa delle cosiddette varianti, si è riproposta tal quale, come se il tempo non fosse passato.
Ma in questo lungo anno molte cose sono accadute e, oltre ai numerosi lutti, sono state sperimentate le negative conseguenze determinate da alcune delle misure adottate per far fronte all’epidemia. È questo il motivo per cui il nuovo Dpcm sta sollevando molte proteste e critiche, in particolare tra le famiglie e gli studenti che vedono nuovamente compromesso il diritto all’istruzione, e scaricate sulle proprie spalle le conseguenze della chiusura delle scuole.
Per i genitori, specie le donne su cui più spesso ricade il lavoro di cura, si ripropone la necessità dei congedi parentali per assistere e affiancare i propri figli, in particolare quelli più piccoli di età, durante le lezioni a distanza. Per gli alunni si ripresentano le difficoltà già vissute durante il primo lockdown, e solo in parte risolte: quelle di tipo tecnico - quali la mancanza di connessione alla rete internet o di dispositivi digitali adeguati - ma soprattutto quelle di natura pedagogica, psicologica e sociale.
E’ forte il rischio che anche l’anno scolastico in corso, dopo quello precedente, possa risultare fortemente compromesso, con tutto ciò che questo comporta soprattutto per gli esiti formativi degli alunni socialmente e culturalmente più fragili e svantaggiati.
Per prevenire questa nuova chiusura delle scuole si poteva e doveva fare di più e soprattutto per tempo. Prima di tutto più efficaci misure di sicurezza all’interno delle scuole (più dispositivi di protezione, più spazi, più organici) e a supporto delle scuole (più tracciamenti e tamponi per il personale, più trasporti per gli alunni). Occorreva un piano vaccinale dedicato al personale scolastico, invece ad oggi siamo ancora a 200mila vaccinati su oltre un milione di addetti, con la seconda dose – quella che garantisce la massima protezione - che verrà somministrata dopo 12 settimane, ovvero ad anno scolastico ormai concluso.
A proposito di calendario scolastico, appare del tutto inadeguata oltre che pretestuosa la proposta di prolungare l’anno scolastico oltre la conclusione prevista, come se due settimane di didattica in più – magari a distanza - potessero bastare per recuperare i ritardi cumulati in questi ultimi due travagliati anni di scuola. Ciò che serve sono invece interventi strutturali in grado di dare risposta tanto ai vecchi che ai nuovi problemi della scuola determinati dalla pandemia, come la stabilizzazione fin dal 1° settembre di oltre 200mila posti di lavoro attualmente coperti con personale precario; come la diminuzione del numero di alunni per classe al fine di garantire non solo il necessario distanziamento ma soprattutto un intervento didattico individualizzato, per recuperare i ritardi cumulati. Da ultimo, ma non per ultimo. il rinnovo del contratto della categoria, scaduto ormai da oltre due anni.
Per la chiusura di bar e ristoranti sono state stanziate ingenti risorse per i ristori economici. Per la chiusura delle scuole sarà possibile prevedere per alunni e studenti i necessari ristori educativi e didattici?