- Redazione
- 2021
- Numero 22 - 2021
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Il tempo è adesso, dopo che il governo ha trascinato un finto confronto quasi oltre il limite. Ma la manovra di bilancio, presentata alla Commissione europea prima che alla stessa maggioranza di “unità nazionale”, per non dire del Parlamento, era ed è blindata.
Una manovra espansiva, 30 miliardi che non si vedevano da ben prima della pandemia. Un “tesoretto” – sempre a deficit, è bene ricordarlo – che viene dall’importante rimbalzo del Pil dovuto all’enorme sacrificio delle lavoratrici e dei lavoratori, a partire da quelli essenziali che, a rischio della salute e della vita, hanno garantito la tenuta e ripresa dell’economia anche durante i lockdown e le pesanti restrizioni per contenere il dilagare del virus.
Ma espansiva non significa di per sé equa, redistributiva, sociale. Questa del “governo dei migliori” non è solo inadeguata, come hanno detto le segreterie Cgil Cisl Uil, ma sbagliata, di continuità con le politiche liberiste e di primato del mercato, ordoliberista come è del resto l’impianto del Pnrr. Regressiva. Chi parla di “luci e ombre” non ne vuole cogliere il segno classista, l’ulteriore restrizione del perimetro pubblico con investimenti pubblici, nel Pnrr, su sanità (comunque insufficienti) e infrastrutture, ma la gestione data al privato, profit o terzo settore che sia. Con il collegato alla legge di bilancio che ripropone l’autonomia differenziata, cioè l’amplificazione della disastrosa gestione di 20 diversi servizi sanitari regionali, tragicamente falliti durante la pandemia, e il ddl concorrenza che privatizza i servizi pubblici locali, facendo strame del referendum del 2011 per la ripubblicizzazione dell’acqua.
Non c’è niente sulle pensioni e il futuro previdenziale di quanti sono nel contributivo, con il governo che ha cercato di barattare il ritorno alla Fornero con un tavolo di confronto, mai convocato, e ha imposto quota 102. Niente sulla stabilità del lavoro, mentre la “ripresa” produce solo posti di lavoro precari, penalizzando ancor di più donne, giovani e Mezzogiorno. Niente sulle politiche industriali, su un intervento pubblico che impedisca le delocalizzazioni e imponga vincoli occupazionali alle multinazionali. Sono fumosi gli impegni sugli ammortizzatori sociali universali; e c’è poco o niente sulla non autosufficienza, e sulle richieste dei pensionati per recuperare parzialmente la più che ventennale perdita di potere d’acquisto.
Sono tutte ragioni che avevano avviato la necessaria mobilitazione unitaria, con le assemblee nei posti di lavoro e le manifestazioni regionali in corso. Ma qualsiasi ulteriore dubbio sul segno di classe del governo è stato fugato dall’accordo di maggioranza sul bonus fiscale di 8 miliardi, che il sindacato chiede di destinare interamente a lavoratori e pensionati, a partire dai redditi più bassi.
Invece si vuol fare tutto il contrario. Un miliardo alle imprese per il taglio dell’Irap, che finanzia la sanità. Poi, anticipando una “riforma” fiscale trainata dalla destra della flat tax, i 7 miliardi sull’Irpef si usano per ridurre la progressività, portando da cinque a quattro le aliquote, e abbassando quelle intermedie a favore dei redditi medio alti. Mentre l’Irpef è pagata per il 90% da lavoratori e pensionati, l’85% dei lavoratori dipendenti avrebbero “benefici” inferiori ai 200 euro annui, a fronte dei redditi da 40mila euro in su che riceverebbero fino a 800 euro, e ben oltre i 250 quelli oltre i 75mila. A favore dei quali la destra (Lega, Forza Italia, Italia Viva) si è opposta anche al contentino di sterilizzare per un anno il beneficio, a favore di un fondo per la riduzione delle bollette energetiche.
La misura è colma. Le vertenze sulle piattaforme unitarie non si concludono con la legge finanziaria, ma non sono accettabili né la manovra così com’è, né la distribuzione alla rovescia della riduzione fiscale, pessimo prodromo della futura “riforma”, dalla quale è completamente scomparsa la tassazione delle grandi ricchezze.
Nel Comitato Direttivo del 3 dicembre la Cgil ha deciso di proporre a Cisl e Uil la continuità della mobilitazione, lo sciopero generale, possibilmente unitario, sulla base del mandato ricevuto dall’Assemblea Generale. Dev’essere chiaro a tutto il Paese che le scelte di maggioranza e governo non sono compatibili con il necessario cambiamento, la lotta alla diseguaglianza, la centralità del lavoro. Ce lo chiede la nostra gente: coerenza e determinazione, continuità della mobilitazione, risposte adeguate.
Lo sciopero generale non conclude la lotta. Ma, nella nostra piena autonomia, è il passo necessario per conquistare il rispetto delle controparti e portare a casa risultati strutturali e di prospettiva, oltre quelli limitati già raggiunti. Il passo che ci riporta in sintonia con la nostra base attiva, e che risponde in positivo alla crisi di fiducia che serpeggia tra le lavoratrici e i lavoratori.
L’incontro del 29 novembre fra sindacati e governo in materia di fisco è andato proprio male, se lo stesso segretario della Uil Bombardieri evoca nella sua intervista a ‘il manifesto’ del 1° dicembre l’eventualità di uno sciopero generale.
L’accordo politico sulla revisione dell’Irpef e dell’Irap tra i partiti della maggioranza non piace a nessuno tranne che a quelli che l’hanno firmato. Sono piovute critiche anche da parte di Bankitalia come della Confindustria. In particolare la prima ha osservato che, se si voleva migliorare il reddito dei lavoratori dipendenti, si era scelta la strada sbagliata, quella di un intervento orizzontale sull’Irpef che finiva per favorire i redditi medio-alti.
In effetti, tra le proposte preparate dal team di esperti messo in piedi dal governo, è stata scelta la soluzione peggiore, che dovrà finire in un emendamento governativo alla legge di bilancio ora al Senato. Si tratta di una manovra regressiva peggiore di quanto ci si potesse aspettare, vista la discussione nelle commissioni parlamentari competenti di Camera e Senato.
Degli otto miliardi previsti, sette verrebbero utilizzati sull’Irpef e uno sull’Irap. L’Irpef verrebbe ridisegnata lungo quattro aliquote rispetto alle cinque attuali, con l’intenzione di portarle poi a tre, in contrasto con il criterio della progressività contenuto in Costituzione. Si ricorderà che la riforma fiscale entrata in vigore nel 1974 prevedeva un sistema tributario di 32 aliquote dal 10% al 72%. Da allora si è snodato un lungo ma implacabile percorso, con innovazioni legislative regressive, che hanno sorretto la lotta di classe condotta dalle classi dominanti lungo l’ultimo quarantennio e che ora troverebbe così la sua nuova epifania.
Le quattro aliquote sarebbero del 23%, del 25%, del 35% e del 43%. Per venticinque milioni di lavoratori e pensionati non c’è nulla o miglioramenti minimi. Infatti per la no-tax area si parla di piccole e imprecisate modifiche; la fascia di reddito fino a 15mila euro resta al 23%; quella tra i 15 e i 28mila euro scende dal 27% al 25%; la successiva dai 28mila ai 50mila euro (non più 55mila) diminuisce di tre punti dal 38% al 35%; oltre quella cifra, avendo cancellato l’aliquota del 41%, si applicherebbe quella del 43%.
L’effetto di questo ridisegno di scaglioni e aliquote favorisce i redditi medi ed anche quelli con un alto imponibile. Basta guardare al terzo scaglione per rendersene conto. La riduzione di tre punti dell’aliquota favorisce proporzionalmente di più coloro che si trovano nella parte alta dello scaglione, ovvero vicino ai 50mila euro, che non quelli che stanno vicini ai 28mila, poiché per questi ultimi la riduzione agirebbe solo su una componente minimale del loro reddito che verrebbe per il restante investito da una riduzione inferiore dell’aliquota.
Non lasciamoci ingannare dal fatto che tra 50 e 55mila l’aliquota sale dal 38 al 43%, dal momento che i contribuenti che si trovano in quel segmento di reddito riescono a beneficiare dei cinque punti di aliquota tagliati nei due scaglioni precedenti e più che compensare l’incremento sul pezzetto tra 50 e 55mila euro. Nel contempo l’aliquota del 43% rimane il tetto del sistema tributario, molto lontano da quel 72% di quaranta anni fa, e lascerebbe indifferenti gli strati più ricchi della popolazione.
Altro che riduzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente e sui pensionati, soprattutto quelli con gli assegni più bassi. Alla faccia della recente elaborazione di Openpolis su dati Ocse, che mostra come i salari italiani siano gli unici nel quadro europeo ad essere diminuiti (del 2,9%) dal 1990 ad oggi. Ma la scelta e l’obiettivo erano altri, cioè quelli di venire incontro ai mitici ceti medi. Lo si vede anche dall’intervento sull’Irap cui è destinato un miliardo degli otto complessivi già insufficienti.
Come è noto l’Irap svolge un ruolo fondamentale nel finanziamento del sistema sanitario nazionale, ma si è scelto irresponsabilmente il momento meno indicato di fare ciò che è pur sempre una cosa sbagliata. Un contentino alla Lega, dopo il braccio di ferro sulle misure anti-Covid? Sarà, sta di fatto che l’eliminazione dell’Irap per ditte individuali si aggiunge ai diversi tagli che hanno più che dimezzato il gettito fiscale di questa imposta dal 2,7% del Pil nel 2007 all’1,2% nel 2020.
La partita non è chiusa, ma c’è poco da sperare in questo Parlamento la cui composizione è frutto delle scelte dei vertici dei partiti. Spetta al sindacato e alle lotte popolari riaprirla nel verso giusto.
L’Opa del fondo americano Kkr può essere l’occasione per una politica pubblica delle comunicazioni, di fronte alla quale la Commissione europea potrebbe dire poco vista la situazione di altri paesi.
Il fondo americano Kkr, con una disponibilità di 400 miliardi di dollari, presente con posizioni di rilievo nella proprietà di numerose società di infrastrutture, e di vari mezzi d’informazione in giro per il mondo, ha manifestato l’interesse a lanciare un’Opa per ottenere la maggioranza assoluta e poi la totalità delle azioni di Tim; vorrebbe acquisire, in sintesi, quella che viene ancora impropriamente chiamata “rete telefonica”, ma è di fatto la principale infrastruttura italiana, possedendo già una partecipazione importante nell’“ultimo miglio” e puntando a prelevare anche quel pezzo di infrastruttura internazionale in mano all’Italia, oltre al formidabile serbatoio di dati sensibili posseduti da Sparkle.
Sembra che l’iniziativa del fondo americano sia stata sollecitata da una parte del consiglio di Tim di fronte alla caduta del prezzo del titolo e per contrastare il peso del principale azionista Vivendi. Al di là delle supposizioni si profila comunque un vero e proprio assalto, condotto da un operatore finanziario onnivoro, che aggredisce un pezzo cruciale del sistema strategico italiano. L’unica reazione, al momento, pare essere stata proprio quella del socio francese di Tim, la Vivendi di Vincent Bolloré, onnipresente in Italia, fresco di una dura battaglia con Mediaset, poi giunta a composizione, e impegnato in Francia a sostenere Eric Zemmour, il possibile candidato della destra populista all’Eliseo.
Tutto questo sta avvenendo, è bene ricordarlo, mentre la politica discute, in televisione e alla presentazione dei libri del noto storico Bruno Vespa, del “super Green pass”, e soprattutto di chi sarà il kingmaker del futuro inquilino del Quirinale. Certo - sosterrebbe qualcuno - forse è meglio che i partiti evitino di occuparsi della rete, visti i disastri delle diverse ondate di privatizzazioni, l’operato dei capitani coraggiosi e lo scempio compiuto dai salotti buoni della finanza italiana.
Tuttavia, la principale infrastruttura italiana non può diventare preda della finanza internazionale nel silenzio generale. A questo riguardo, tre elementi colpiscono in particolare. Il primo è rappresentato dal fatto che non esiste in giro per il mondo un caso dove un monopolio di questo rilievo sia interamente nelle mani di un fondo finanziario. Se Kkr acquisisse la maggioranza assoluta di Tim, si tratterebbe di una colossale anomalia; saremmo di fronte ad un incumbent in totale possesso della finanza.
Il secondo elemento si lega ad una domanda. Ma perché Kkr ha manifestato la volontà esplicita di comprare la maggioranza delle azioni di Tim? Forse per far capire allo Stato italiano, che sembra non averla ancora capita in pieno, la strategicità dell’asset dell’infrastruttura e dei dati connessi e magari rivendere la maggioranza di Tim fra un paio d’anni a Cassa depositi e prestiti, dunque allo Stato italiano, non a 11 ma a 15 miliardi, procedendo poi a vendere anche il settore dei servizi ad operatori del settore, con una significativa presa di beneficio sul prezzo. Il terzo elemento si lega alla constatazione che l’esercizio del golden power da parte del governo, senza una strategia vera, sarebbe inutile.
Sarebbe opportuno invece che Cassa depositi e prestiti puntasse subito al controllo di Tim muovendosi in anticipo, dopo il ricorso alla golden power, e ricorrendo se necessario al debito, visto che Kkr userà certamente l’effetto leva con l’appello al sistema bancario. Il percorso potrebbe essere dunque quello di anticipare il fondo statunitense per mettere insieme Tim con Sparkle e con Open Fiber, riunendo l’ultimo miglio e ricomponendo in mani pubbliche la proprietà della principale infrastruttura delle comunicazioni.
Una volta riacquisito il monopolio, lo stesso Stato dovrebbe poi evitare di scorporare anche i servizi, per fare in modo che esista una profonda connessione fra la rete “fisica” e l’intelligenza dell’innovazione tecnologica a cui serve un disegno organico. In altre parole, l’Opa di Kkr può essere l’occasione, finalmente, per una politica pubblica delle comunicazioni, di fronte alla quale la Commissione europea potrebbe dire poco, vista la situazione di altri Paesi.
Il cavalier Silvio Berlusconi si è messo in corsa per la carica di Presidente della Repubblica. Come cittadino e dirigente nazionale della Cgil trovo la cosa irricevibile, una nauseante aberrazione. Mi chiedo come sia possibile che, nella nostra Repubblica democratica e antifascista, si possa anche solo pensare di candidare un politico e un affarista senza scrupoli, un uomo capace di tante nefandezze da averci fatto vergognare per anni in Europa e nel mondo.
Come dimenticare gli avvenimenti del suo ventennio di governo, le gravi condizioni sociali ed economiche in cui aveva fatto precipitare il Paese? Ricordo gli scioperi generali, le mobilitazioni contro le scelte antisociali e i programmi incostituzionali dei suoi governi, il tentativo di sovvertire il sistema democratico e i principi fondanti della nostra Costituzione con la controriforma costituzionale, per instaurare un ordine autoritario e il presidenzialismo, saggiamente bocciata dal voto referendario.
Come dimenticare la vergogna provata dinanzi a parlamentari, senza onore e dignità, che in Parlamento votano il falso, avallano su suo “ordine” che la ragazza dei festini a base di bunga bunga ideati da un maschilista malato di sesso era la nipote del presidente Mubarak? L’Italia, noi tutti, eravamo diventati una barzelletta.
Con quale dignità la destra, persino certi politici come Matteo Renzi, avallano non solo la candidatura ma anche lo spot pubblicitario che lo indica come uno statista liberale e garantista, un cattolico e uomo delle istituzioni, erede di Giolitti e De Gasperi?
Corre l’obbligo, per tutti, di non dimenticare chi è stato ed è Silvio Berlusconi. Non solo un imprenditore senza scrupoli, ma anche un piduista, un plurindagato con tante accuse finite in prescrizione. Uno che comprava parlamentari e allontanava, discriminava chi non si piegava alla sua protervia e ai suoi progetti, commissionava e faceva votare leggi “ad personam” e in favore delle sue aziende, attaccava l’autonomia della magistratura e giustificava il reato di evasione fiscale.
Seguiva da affiliato le teorie e i programmi del venerabile massone Licio Gelli, un criminale e capo assoluto della P2, condannato in via definitiva nel 1995 per depistaggio e complicità con i responsabili della strage fascista di Bologna, il cui “Piano di rinascita democratica” è stato definito dalla Commissione parlamentare presieduta dall’onorevole Tina Anselmi un progetto di manomissione della democrazia e della nostra Carta costituzionale. È ormai certo che la P2 è stata una loggia massonica segreta che tramava contro lo Stato, un’associazione eversiva con tanti affiliati, che ha avuto un ruolo nefasto nei tragici anni dello stragismo, delle bombe e delle deviazioni dei servizi segreti.
A questa struttura criminale Berlusconi era affiliato già nel 1978 con la tessera numero 1816 e, nonostante abbia cercato di negarlo anche sul web, è possibile trovare la ricevuta del suo versamento di centomila lire. E non è un segreto che nel 1990 la Corte d’appello di Venezia condannò Berlusconi per aver giurato il falso proprio a proposito della sua affiliazione alla P2. Gelli stesso si vantava di avere l’Italia in mano: con loro c’erano gli alti comandi di esercito, guardia di finanza, polizia, e aggiungeva che il vero potere era nelle mani dei detentori del mass media.
Berlusconi, diligente allievo, da presidente del Consiglio ha aumentato il suo potere comunicativo, monopolizzato la tv pubblica, occupato la carta stampata e comprato giornalisti, censurando o espellendone altri come Enzo Biagi. Dovrebbe più che bastare per inorridire solo all’idea della sua possibile candidatura.
La P2 è stata sciolta dal Parlamento nel 1982, ma molti affiliati hanno continuato indegnamente a ricoprire ruoli e funzioni istituzionali e di potere. Alcuni hanno continuato il progetto del “venerabile”, al punto che nel 2003, durante il governo Berlusconi, il criminale Gelli dichiarava: “Guardo il paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo, la giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Dovrei chiedere i diritti d’autore”.
Forse per capire l’ambizione e le ragioni vere della candidatura di Berlusconi serve richiamare quanto dichiarò l’allora presidente della Commissione antimafia, Luciano Violante: “La P2 è stata sciolta da una legge ma può essere sopravvissuto il suo sistema di relazioni politiche, finanziarie e criminali (…). Quanto al dottor Berlusconi, il suo interventismo attuale è sintomo della reazione di una parte del vecchio regime che avendo accumulato ricchezza e potere negli anni ottanta, pretende di continuare a condizionare la vita politica negli anni ‘90”. Purtroppo penso che voglia condizionarla e piegarla ancora nel nuovo millennio.
Sta a tutti i cittadini perbene, ai partiti democratici, fare in modo che questa sciagura sia risparmiata al nostro Paese.