Salvaguardare il contratto nazionale per salvaguardare la ricerca italiana - Gabriele Giannini

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Mai come in questi ultimi mesi è parsa chiara, nel dibattito pubblico del nostro Paese, la centralità della ricerca, intesa nei suoi molteplici aspetti, da quella di base a quella strumentale, a quella al servizio del trasferimento tecnologico. Ma anche quanto siano distanti le dichiarazioni di attenzione della politica da essa, dalle scelte che concretamente si compiono nel merito.

La pandemia e gli sforzi della comunità scientifica internazionale, compresi quelli tecnologici per trasferire ai vaccini le scoperte dei ricercatori di base, hanno accelerato processi che nel passato avevano avuto una durata più che decennale. Mentre per arrivare ai vaccini contro la sars-covid-2 sono bastati meno di due anni, portando la ricerca al centro dell’attenzione mondiale per gli straordinari risultati. Anche le nostre università, enti di ricerca e la ricerca ospedaliera hanno contribuito allo sforzo internazionale contro la pandemia, ricavandone un altrettanto importante riconoscimento sociale ai ricercatori nostrani.

Per altro verso, l’emergenza climatica che stiamo affrontando, chiaramente addebitabile all’economia basata sul consumo di energie fossili, come da tutta la comunità scientifica internazionale acclarato, ci dà la misura del ruolo che la scienza può svolgere per il futuro del nostro pianeta. Perché se solo con il drastico ripensamento dell’attuale modello di sviluppo e il superamento dell’energia fossile sarà possibile salvarlo, spetterà alla ricerca aiutare la pesante transizione che ci aspetta per ridurre i disagi che ne scaturiranno.

Infine, il riconoscimento del premio Nobel al nostro fisico Giorgio Parisi è riuscito a dare ulteriore straordinaria ribalta alla ricerca nel nostro Paese, ma con essa anche ai mali che l’attanagliano e alle potenzialità del nostro sistema se solo fosse più finanziato, più sostenuto, meno precario. Infatti basta ascoltarlo, il nostro fisico Parisi, per sapere cosa occorrerebbe per il rafforzamento del nostro sistema, per farlo uscire dalla intrinseca debolezza e frammentarietà. Un piano di reclutamento pluriennale di almeno 20mila ricercatori e il raddoppio dei finanziamenti ordinari in cinque anni sono le richieste di base che Parisi e altri luminari italiani attraverso il noto “Piano Amaldi” stanno proponendo alla politica.

Sono noti peraltro altri elementi critici come il basso numero di laureati nel nostro Paese rispetto al resto dell’Europa e dei principali competitor internazionali, o come la fuga dei cervelli che evidenzia la debolezza delle nostre infrastrutture e delle tutele che possiamo offrire ai ricercatori. Punti di debolezza del nostro sistema che tuttavia contrastano con l’apprezzamento positivo che i nostri ricercatori ottengono nelle competizioni europee per l’assegnazione dei grant o di altri progetti di ricerca. Apprezzamento che li costringe a portare altrove (all’estero) le risorse acquisite, in paesi dove le infrastrutture sono senza dubbio più robuste, ma superiori anche le opportunità che possono offrire loro le università o i centri di ricerca stranieri. Questo è il risultato del grave e insufficiente approccio della politica al sistema della conoscenza, scuola università e ricerca.

Le gravi insufficienze storiche con cui la politica guarda alla ricerca italiana hanno aggiunto un’altra anomalia al campionario con la legge di bilancio per il 2022, dove, a proposito di ricerca, è previsto un finanziamento, destinato in sede di rinnovo contrattuale alla valorizzazione professionale di ricercatori e tecnologi e per la revisione del loro sistema di classificazione, solo per gli enti vigilati dal ministero dell’Università e della Ricerca. Per il resto degli enti, vigilati da altri sei ministeri, fra cui segnaliamo Enea, Crea, Istat, Ispra e Inail, non è previsto alcun finanziamento aggiuntivo, lasciandoli abbandonati alla mercè dei loro magri bilanci per affrontare la difficile tornata contrattuale, in cui è prevista la revisione del sistema di classificazione.

Il legislatore e il governo non hanno saputo o voluto pensare ad una misura di sistema per tutti gli Enti pubblici di ricerca; così, una misura dallo scarso peso economico per le casse dello Stato (dell’ordine di 10 milioni di euro), rischia di far esplodere il sistema degli Enti pubblici di ricerca e di frammentarlo ancora di più, quando invece per il loro rafforzamento bisognerebbe pensare ad un loro maggior coordinamento politico e finanziario, che passa anche da tutele e opportunità contrattuali uguali per tutti.

Anche per questo al momento non si può firmare il Contratto collettivo nazionale di lavoro dell’Istruzione e Ricerca, la cui trattativa è aperta all’Aran e a cui afferisce il personale degli Enti pubblici di ricerca, nonostante il triennio contrattuale di riferimento 2019-2021 sia abbondantemente scaduto. 

Ripensando al nostro premio Nobel 2021 Giorgio Parisi, in queste condizioni la firma del Ccnl sarebbe uno schiaffo alla ricerca pubblica ed ai nostri ricercatori.

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