In campo contro il governo Meloni, di destra reazionaria, liberista e classista - di Giacinto Botti

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Siamo alle prime avvisaglie. Le scelte irresponsabili del primo Consiglio dei ministri del governo Meloni sulla pandemia, l’approccio securitario ne confermano la natura di destra, bellicista, autoritaria, crudele con i deboli e politicamente e socialmente liberista e classista.

L’inquietante e ingiustificato decreto-legge contro i rave party, firmato dal presidente Mattarella, denuncia un atteggiamento criminalizzante verso ogni contestazione che si ponga in alternativa alle scelte del governo. Lo stato di polizia, la repressione violenta e criminale durante il G8 di Genova non li dimentichiamo.

Il condono a medici e assistenti sanitari no-vax è un gesto di disprezzo verso le quasi 180mila vittime, verso i medici e gli operatori sanitari morti per onorare la loro missione. Intanto si continuano a spostare risorse verso il sistema-mercato privato che fa profitti sulla salute delle persone, mentre la sanità pubblica viene privata di fondi e di personale, costringendo milioni di cittadini a rinunciare alle cure e alla prevenzione.

Abbiamo una premier di destra in pieno stile thatcheriano, che attacca i diritti universali, sociali e civili, e a livello macroeconomico, nel rapporto con la Ue e sulla politica estera, subalterna agli Usa e in continuità con l’agenda Draghi. Il motto conservatore a cui si richiama la prima donna presidente è: libertà, giustizia, benessere e sicurezza, ma in una declinazione che nulla ha a che vedere con i nostri ideali.

Nel discorso programmatico, ideologico e identitario, gravi sono stati i silenzi sulla Resistenza e la Liberazione, sulla dura realtà sociale ed economica. Non una parola sulla Pace, ma ancora bellicismo, riarmo e invio di armi all’Ucraina, con il consenso di una parte del fronte progressista. Fermare la guerra, trattare per la Pace per noi, per chi è sceso in piazza il 5 novembre è dirimente.

Nulla sull’emergenza climatica, sempre più allarmante per il futuro del pianeta. Le diseguaglianze di genere e di ceto, i femminicidi, lo sfruttamento nel lavoro, gli infortuni mortali, la questione salariale, la precarietà, il lavoro povero e schiavizzato neppure richiamati. La povertà, la disoccupazione per la signora presidente non sono ingiustizie sociali ma una colpa, una responsabilità individuale.

Gli immigrati lasciati morire con crudeltà sono persone, e rappresentano la possibilità per l’Italia di sopravvivere: senza di loro non c’è futuro per un Paese che invecchia e vive una crisi demografica inarrestabile.

Alla scuola pubblica, all’università occorrono risorse, e prima del “merito”, il nuovo dogma, devono prevalere le parole inclusione, uguaglianza nelle possibilità. L’abbandono scolastico da parte dei figli di famiglie meno abbienti è sintomo di un grave malattia, di una scuola pubblica svuotata in favore di quella paritaria e privata, selettiva per censo. L’ascensore sociale si è fermato da tempo, i perdenti della globalizzazione non sono senza merito o intelligenza, ma senza diritti universali e giustizia sociale.

La linea economica è incentrata sul “non disturbare chi vuole fare”, una teoria arcaica che vede nel mercato e nella libertà d’impresa l’unica fonte della ricchezza per il Paese.

Innalzare il tetto del contante è un favore alle mafie, agli evasori fiscali, a chi ricorre al lavoro nero. L’eliminazione dell’abuso d’ufficio allenta la lotta alla corruzione. Sul fisco si procederà verso un nuovo condono, regalo agli evasori, mentre la flat tax segnerà un ulteriore attacco alla progressività, e il cuneo fiscale sarà maggiormente indirizzato verso le imprese. E il percorso dell’autonomia differenziata e del presidenzialismo subirà un’accelerazione favorita dall’operato dei precedenti governi.

Questa compagine governativa procederà a colpi di maggioranza parlamentare alla realizzazione del suo programma, senza che le opposizioni possano realmente contrastarla in Parlamento, e, finora, sappiano e vogliano farlo nel Paese. Si è consegnato alla destra un potere immenso, una “dittatura della maggioranza”, resa possibile con la riduzione dei parlamentari e una legge elettorale incostituzionale.

Le divisioni, gli errori e le scelte sbagliate del fronte progressista, del centrosinistra e delle sinistre in politica si pagano. La sinistra ha perso prima di tutto sul fronte culturale e dell’egemonia in senso gramsciano, mentre la destra rafforzava la sua ideologia identitaria e la sua supremazia. Non ci attardiamo sul passato, ma se si vuole guardare avanti e unire le forze politiche e sociali contro la cultura e le scelte del governo, non possiamo rimuovere le ragioni della sconfitta.

Dalla crisi si esce da destra o da sinistra: si è chiusa la stagione perdente dei governi tecnici e di responsabilità nazionale. I diritti universali e del lavoro si affermano redistribuendo reddito, ricchezza e opportunità, sconfiggendo le discriminazioni e i paradigmi liberisti e classisti. Occorre un radicale cambiamento.

Non si apriranno tavoli di confronto e non vedremo disponibilità verso il sindacato confederale e le sue rivendicazioni sociali. Li dovremo conquistare. Solo un ampio movimento di lotta, una mobilitazione unitaria del mondo del lavoro, dei movimenti antifascisti, pacifisti, ambientalisti e femministi potranno cambiare i rapporti di forza e contrastare la cultura e le politiche del governo.

La Cgil è scesa in piazza, prima del risultato elettorale, a sostegno delle sue proposte e rivendicazioni, della sua idea di progresso e di giustizia economica e sociale che contrasta con il programma, la natura e le posizioni del governo. E’ tornata in piazza l’8 ottobre, contro il fascismo e per i valori costituzionali. Ha partecipato in massa alla grande manifestazione del popolo della pace del 5 novembre, per dire basta alla guerra, a tutte le guerre, e al riarmo. Ha la sua agenda politica e valori di riferimento, e la sua autonomia di giudizio, di pensiero e di azione, ed è in campo in difesa della Costituzione e dei diritti universali, per l’eguaglianza e la giustizia sociale. Per la Pace, il lavoro e il futuro del Paese.

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La pace è la via. E per le strade di Roma il Partito della pace ha mostrato all'Europa intera la sua forza, disarmata e non violenta. Una manifestazione gigantesca, un oceano di bandiere arcobaleno per dire ai potenti della Terra “cessate il fuoco, e aprite subito i negoziati per evitare nuovi lutti e ulteriori distruzioni”.

Tra chi è sceso in piazza, tanti lo avevano fatto anche nel 2003, quando le proteste di decine di milioni di persone in tutto il pianeta contro la guerra in Iraq avevano fatto scrivere al New York Times che si era manifestata la seconda superpotenza mondiale. Allora i governanti fecero orecchie da mercante, ferendo profondamente, una volta ancora, la democrazia.

Ma il popolo della pace è testardo, ed è tornato massicciamente in piazza perché sa bene che questa volta a incombere c'è addirittura la minaccia nucleare. “Pochi potenti giocano con missili e bombe ignorando le crisi planetarie”, aveva detto Papa Francesco alla vigilia del corteo di sabato. E la Cgil, che della manifestazione è stata uno dei motori, aveva ricordato che la guerra è la principale causa delle crisi alimentari mondiali, ancor più disastrose in Africa e Oriente; incide sul caro-vita, sulle fasce sociali più povere e deboli, e determina scelte nefaste per il clima e la vita del pianeta.

Di fronte alla popolazione ucraina colpita dai bombardamenti, ai profughi e ai rifugiati costretti a fuggire dalla loro case distrutte, di fronte alle migliaia di morti da ambo le parti, chi ha affollato piazza San Giovanni ha gridato che questa guerra va fermata, subito. Condannando l'aggressore russo e rispettando la resistenza ucraina, ma va fermata. Con la volontà politica della pace, portando al negoziato i governi di Kiev e di Mosca. Senza umiliare nessuno dei contendenti, e cercando soluzioni non imposte con la forza ma, come ha sottolineato il pontefice, “concordate, giuste e stabili”. Perché l’umanità e la stessa Terra devono liberarsi dalla guerra.

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Luisa Morgantini: “La guerra? Fra uccidere e morire c’è una terza via: vivere” - di Frida Nacinovich

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Figura storica del pacifismo italiano, da sempre impegnata a costruire ponti e non muri, Luisa Morgantini non avrebbe bisogno di presentazioni. Una donna coraggiosa, testarda nell’affermazione dei diritti umani di fronte alle piccole e grandi porcherie che quotidianamente affliggono il pianeta. Tra le fondatrici delle Donne in Nero italiane, dell’Associazione per la pace in Palestina (Assopace) di cui è attualmente presidente, e della rete internazionale delle Donne contro la guerra, l’ex vicepresidente del Parlamento europeo è convinta che valga sempre la pena difendere la pace. “Magari fossi una candela in mezzo al buio”, dice citando Mahmoud Darwish, uno dei più amati poeti palestinesi.

 

Luisa Morgantini, quanto andrà ancora avanti questa follia? Quando Russia e Ucraina si decideranno finalmente a negoziare il cessate il fuoco?

“Questa situazione è allucinante. Si diceva che questo mondo era razionale, invece è un mondo totalmente irrazionale. Impazzito. Costruire, continuare a fabbricare armi è irrazionale. Costruiamo cose per distruggere. La bomba nucleare è fatta per distruggere ogni cosa. Perché siamo arrivati a questo punto è difficile dirlo, ma la risposta non possono essere altre armi. Non si può incentivare, incrementare la distruzione e la morte. Dobbiamo dire basta, come donne, come pacifiste. Mi viene a mente una frase bellissima della scrittrice tedesca Christa Wolf, messa in bocca all’amazzone: “Fra uccidere e morire c’è una terza via, vivere”. Se ci siamo spinti così avanti è perché rinunciamo a pensare. Siamo di fronte alla morte dell’umanità. Non sarà l’apocalisse, ma per noi che siamo contro le guerre, contro la violenza, si intrecciano sentimenti di grande tristezza e preoccupazione”.

 

Specialmente nei primi mesi del conflitto russo ucraino, l’informazione ha messo l’elmetto ed è è partita verso il fronte …

“Negli ultimi trent’anni, forse ancora di più, la guerra si è affermata e riproposta in tutte le sue dimensioni. Urlavamo “fuori la guerra dalla storia”, invece la guerra è rientrata prepotentemente nella storia. È pazzesco questo mondo che va alla rovescia. Oggi si parla di Europa per dire che non ha una linea comune, che non ha fatto una scelta politica. Non sono d’accordo. Purtroppo l’Europa, nelle sue dimensioni istituzionali, ha fatto una scelta politica ben precisa, che è quella di essere al servizio della Nato. Sono gli Stati Uniti che decidono e comandano, nelle basi militari del nostro paese ospitiamo le loro pericolosissime armi. Per anni abbiamo detto e ripetuto “via le basi americane dall’Italia”. Invece le ritroviamo ancora tutte, sempre di più”.

 

Dall’Europa ci si deve aspettare molto di più?

“L’Europa non è riuscita ad avere una voce autonoma. Questa è la realtà. Le istituzioni non sono state capaci di avere una propria autonomia, lo scollamento con il popolo è evidente. Dico di più, l’Europa non ha neppure cercato di prendere una strada diversa. Al contrario, è diventata sempre più guerrafondaia nelle parole dei suoi governi, a partire da quello italiano. Guerrafondaia come la presidente della Commissione europea. Abbiamo risposto alla guerra immorale scatenata da Putin con una politica di guerra. Così facendo abbiamo incentivato le distruzioni, e le morti degli ucraini e dei soldati russi. Abbiamo distribuito armi all’Ucraina invece di tentare come Europa di avere una politica diversa da quella degli Stati Uniti. Ed è una cosa incredibile, non si capisce perché dobbiamo essere al servizio della crescita a dismisura della presenza nord americana in Europa. Ricordo l’aggressione all’Iraq da parte degli Stati Uniti, anche allora con la nostra connivenza e complicità. Saddam Hussein aveva detto nel consesso arabo che, al posto del dollaro, la moneta di scambio sarebbe stato l’euro. E questa sarebbe stata una cosa importantissima. Niente da fare, l’Europa si è sempre accodata alle scelte degli Stati Uniti. Penso che lo abbia fatto con consapevolezza. Non ha mai voluto giocare un ruolo autonomo, e se l’ha fatto per un breve periodo ha assunto una posizione in qualche modo di ‘soft power’. Ma di fatto abbiamo sempre aderito a queste scelte di guerra: l’Iraq, la Libia, la Jugoslavia. Eppure avevamo un governo con Massimo D’Alema ministro degli Esteri. Credo che, in quel preciso momento, se invece di fare una dichiarazione di alleanza occidentale, con la Nato, avessimo avuto la forza e il coraggio di dire di no, noi la guerra non la facciamo, ripudiamo la guerra come dice la nostra Costituzione, sarebbe cambiato il mondo. Non so cosa sarebbe successo, forse avrebbero fatto un colpo di Stato contro di noi. Ma sicuramente ci troveremmo in una situazione completamente diversa. Perché, a partire dalle prime guerre del Golfo, per arrivare a quella in Jugoslavia, abbiamo visto crescere sempre di più la presenza degli Stati Uniti dalla nostra parte. Kosovo, Iraq, Afghanistan, sono serviti nei fatti ad accrescere la potenza statunitense”.

 

Sempre in prima linea contro la guerra, la ricordiamo vestita di nero ai tempi della guerra nell’ex Jugoslavia, per denunciare anche allora la follia di ogni conflitto armato.

“Le guerre si fanno perché si producono le armi. E le armi devono essere sempre usate e poi cambiate, così si fanno nuovi investimenti e ci sono nuovi profitti per le aziende che realizzano armamenti. Questa guerra non è più russo-ucraina, è una guerra geopolitica. Come dicono molti studiosi, anche non di sinistra, questa è una guerra geopolitica in cui gli Stati Uniti continuano, noi tutti continuiamo a dare armi all’Ucraina per distruggere, invece di puntare fortemente su un piano negoziale. Anche le manifestazioni chiedono questo, il cessate il fuoco e puntare sui negoziati”.

 

All’inizio del secolo il Partito della pace fu definito dal New York Times la seconda superpotenza mondiale, ma a mani nude non è facile contrastare il Partito della guerra.

“Nel 2003 c’è stata l’ultima grandissima manifestazione per la pace. Ma secondo me in qualche modo ha segnato anche la rottura della nostra democrazia. Perché milioni e milioni di persone sono scese in piazza, non solo in Italia ma in tutto il mondo, contro la guerra, e invece la guerra l’hanno fatta lo stesso. Non si è più tenuto conto della posizione della società civile, dell’opinione pubblica. Io vedo il 2003 come un punto di non ritorno. La mia impressione è che da allora non viviamo più in un sistema democratico, ma in un sistema in cui la democrazia e la partecipazione delle persone non sono più prese in considerazione. Non soltanto rispetto alla guerra e alla pace, anche rispetto ai problemi di carattere sociale, al lavoro, ai diritti. E allora alle elezioni vanno a votare sempre meno persone. Da questo punto di vista hanno giocato un ruolo decisivo i media. La disaffezione alla politica, dovuta a un qualunquismo per cui son tutti uguali, tutti rubano, tutti sono corrotti. C’è la casta da abbattere. Il trentennio berlusconiano ha distrutto la partecipazione, ovviamente ci abbiamo messo del nostro anche noi di sinistra. Invece di essere uniti ci dividiamo in mille rivoli, prevale ancora il settarismo”.

 

Come ogni pacifista, ormai per trovare sintonia politica deve leggere il quotidiano dei vescovi l’Avvenire e ascoltare il pontefice?

“Leggo l’Avvenire, il Fatto quotidiano, il manifesto. E le parole giuste le usa Papa Francesco, non soltanto sulla pace e sulla guerra, anche sul lavoro, sulla produzione di armi. E forse non è un caso che questo Papa non sia nato in Italia, Germania, Polonia. In Argentina ha vissuto la dittatura dei militari, ha conosciuto le interferenze nordamericane nei sistemi dittatoriali. Questo mondo è grandissimo, grande e terribile, diceva Gramsci. Però, nello scacchiere ci sono ormai altri interlocutori, che vengono messi da una parte, come hanno fatto con Lula. Allora vedi quanto i media stiano influenzando la cultura. Come si nascondono le verità. Come ci siano due pesi e due misure nelle diverse situazioni. Pensiamo ai curdi. E io penso soprattutto alla Palestina. Se un ragazzino palestinese tira un sasso contro un carro armato è un terrorista, mentre viene invece esaltato da parte dei media occidentali l’eroismo di un ragazzino ucraino che spara. Intanto si permette a Israele di applicare l’apartheid, ammazzare tutti i giorni, rubare terra ai palestinesi, demolire le case, uccidere ragazzini. Tutto viene denunciato, i rapporti delle Nazioni Unite espongono chiaramente i fatti. Però nessuno tocca Israele”.

 

Occhio per occhio e il mondo sarà cieco, lo gridavano gli studenti di Berkeley ai tempi della guerra in Vietnam….

“Spero che le piazze siano piene per dire no alle guerre. Questo popolo che si schiera per la pace chiede basta guerre, basta violenza. Negoziate, cessate il fuoco, e poi vedremo cosa succede. Siamo tutti sconfitti nella follia della guerra. Abbiamo distrutto mezzo Medio Oriente, mezza Europa. Basta. Io spero, mi auguro che la gente capisca, sappia urlare il proprio ripudio della guerra, mostri una forza che possa far cambiare le linee politiche dei nostri governi. Dobbiamo disarmare questo mondo, e forse dobbiamo impegnarci di più per farlo. Contro guerre, sfruttamento, ingiustizie, diseguaglianze. Pochi giorni fa ero a un’iniziativa politica per sostenere Mimmo Lucano, contro di lui è stato intentato un processo aberrante, lo accusano di cose gravissime, anche se fortunatamente dagli atti è venuto fuori chiaramente che lui non si è mai appropriato di nulla. Al più ha commesso reati di umanità. No, non mi stancherò mai di scendere in piazza. Credo che valga comunque la pena di tener aperta questa luce, questa speranza. “Magari fossi una candela in mezzo al buio”. Vale la pena, vale sempre la pena”.

L’Umbria in piazza per la sanità pubblica - di Mauro Moriconi

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La vertenza sanità in Umbria è al centro dell’attività sindacale nella nostra regione ormai da tempo. Il depotenziamento del sistema sanitario pubblico, che avevamo paventato come rischio molto probabile all’inizio della legislatura (anche dalle pagine di questo periodico), oggi è una realtà sotto gli occhi di tutti. Dopo innumerevoli e inconcludenti incontri con la giunta regionale la vertenza è sfociata in un primo appuntamento di mobilitazione il 22 ottobre scorso, con una grande manifestazione regionale a Perugia promossa da Cgil e Uil dal titolo che non lascia spazio ad equivoci: “Vogliamo la sanità pubblica”.

La strategia della Regione fin qui è stata quella di fare finta di ascoltare, di assumere anche impegni formali, salvo poi disattenderli e procedere per la propria strada. È successo così con il piano sanitario regionale (adottato di fatto senza una reale partecipazione con forze sociali e cittadini) e con le oltre 1.100 assunzioni di personale promesse, di cui ne sono state realizzate neanche un decimo. Ma è successo ancora con il piano di efficientamento e riqualificazione del Sistema sanitario regionale 2022-2024, adottato il 5 ottobre scorso, con cui si compie un altro passo verso lo smantellamento della sanità pubblica regionale.

L’Umbria è una regione piccola, poco più di 800mila abitanti con una bassa densità abitativa e con un sistema del trasporto pubblico locale del tutto insufficiente (e oggetto tra l’altro in questi giorni di ulteriori riorganizzazioni, cioè tagli, che penalizzeranno ancora i territori più deboli e marginali). A maggior ragione necessita di un Sistema sanitario pubblico che sia in grado di integrare la rete ospedaliera con i servizi di territorio che dovrebbero essere capillari e diffusi per poter offrire a tutta la popolazione (sopratutto la più fragile a partire dagli anziani) la possibilità di accedere alle cure migliori.

La strada intrapresa è invece quella dello svuotamento delle capacità dei servizi sanitari, sia territoriali che ospedalieri. Lo schema è semplice: non si fanno le assunzioni, i servizi vanno in difficoltà, si sposta personale in altre sedi e la struttura chiude. Il tema della carenza di personale è centrale ed è una della cause principali dell’allungamento delle liste di attesa, della difficoltà di organizzare servizi territoriali/domiciliari decenti, e di conseguenza dell’affollamento delle strutture ospedaliere e dei pronto soccorso.

Per queste ragioni abbiamo ripreso finalmente la mobilitazione riportando in piazza lavoratori e lavoratrici, pensionate e pensionati. Una manifestazione, conclusa dalla segretaria nazionale della Cgil Daniela Barbaresi, di quelle che da tempo non si vedevano in Umbria, positiva non solo per le migliaia di persone (al netto della solita guerra dei numeri con la questura) che vi hanno partecipato o dalla qualità degli interventi dal palco di sindacalisti, Rsu (sia del “pubblico” che del “privato”), ma anche per la partecipazione della cosiddetta società civile che finalmente inizia a prendere coscienza dello stato in cui versa la sanità regionale e si mobilita anche con la costituzione di comitati locali a difesa di ciò che è in procinto di essere smantellato. Insomma si comincia a comprendere che in una realtà come quella umbra o c’è un Servizio sanitario pubblico efficiente e vicino al cittadino, oppure per curarsi bisogna non solo mettere mano al portafoglio ma anche spostarsi in altre regioni.

Deve essere chiaro che la manifestazione del 22 ottobre non è che l’inizio di un percorso di lotta, perché quello della sanità non è che il paradigma della crisi più complessiva: dalla questione già accennata dei trasporti, al piano dei rifiuti (dove hanno proposto un nuovo inceneritore), ai temi dello sviluppo economico. Una giunta regionale senza una visione strategica rischia di precipitare la regione in un declino rovinoso in tempi molto rapidi.

Ed è per questo che la mobilitazione dovrà continuare se sarà necessario fino allo sciopero generale: questo è l’impegno che abbiamo preso di fronte alla piazza del 22 ottobre, perché è dalle vertenze territoriali che deve partire il messaggio forte che il diritto alla salute delle persone in ogni fase della propria vita lo si garantisce solo con un Servizio socio-sanitario nazionale davvero pubblico e universale.

 

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