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Una settimana di scioperi a livello regionale, dal 12 al 16 dicembre, con iniziative in tutti i territori, per la maggior parte promosse insieme da Cgil e Uil, come fu per lo sciopero generale del 16 dicembre 2021. Non è una protesta “contro”. È una protesta “per”, che richiede dunque continuità nei prossimi mesi.

Una mobilitazione, oggi, per una legge di bilancio “più giusta per le persone, più utile per il Paese”, come dice la Cgil. Mentre è la manovra del governo Meloni ad essere “contro”, contro il lavoro dipendente e i pensionati, contro le fasce più deboli della popolazione.

Chiediamo riforme vere, ispirate dai criteri di solidarietà e giustizia sociale, fondate sulla qualità e la stabilità del lavoro, sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e su nuove politiche industriali ed energetiche, sulla trasformazione digitale e la riconversione verde, su uno stato sociale più forte e qualificato.

In cima alle richieste della Cgil c’è l’esigenza di innalzare i salari, anche detassando gli aumenti dei contratti nazionali, portando la fiscalizzazione dei contributi al 5% per i salari fino a 35mila euro per recuperare almeno una mensilità, e introducendo un meccanismo automatico di indicizzazione delle detrazioni all’inflazione (recupero del drenaggio fiscale).

È fondamentale partire dal diritto al lavoro, ridare tutele a tutte le forme di lavoro, con un valore generale ai contratti collettivi nazionali, sancendo così anche un salario minimo e diritti normativi universali.

Oltre ad esigere la rivalutazione delle pensioni, risorse per il diritto all’istruzione e per la sanità pubblica, che ha affrontato e sta affrontando gli effetti drammatici della pandemia, rimane l’obiettivo della cancellazione della legge Fornero, introducendo l’uscita flessibile dal lavoro a partire dai 62 anni, il riconoscimento della diversa gravosità dei lavori, la pensione di garanzia per i lavoratori a solo sistema contributivo e per chi ha carriere discontinue e “povere”, il riconoscimento del lavoro di cura e delle differenze di genere, l’uscita con 41 anni di contributi.

Ma questa manovra – sottolinea la Cgil - “proprio mentre l’inflazione sta mangiando il potere d’acquisto di retribuzioni e pensioni, premia gli evasori e, con la flat tax fino a 85mila euro per il lavoro autonomo, rende ancora più ingiusto il sistema fiscale, sempre più scaricato sul lavoro dipendente, che a parità di reddito paga il triplo”. Non si fa una seria riforma fiscale che faccia pagare le tasse a tutti per pagare meno, e redistribuisca la ricchezza accumulata.

Sono evidenti i favori al proprio blocco sociale elettorale e la spinta a trasformare quanti più posti di lavoro – “in basso” e “in alto” - in nuove partite Iva, premiate fiscalmente ma prive di ogni altro diritto sociale e sul lavoro.

La legge di bilancio trasforma le tasse sugli extraprofitti frutto della speculazione sul caro energia in “contributo di solidarietà straordinario”, e cambia platea e metodo di calcolo, riducendo gli 11 miliardi attesi in precedenza a 2,6 miliardi. Questa legge, iniqua e classista, aumenta la precarietà di giovani, donne, del Mezzogiorno, allargando l’utilizzo dei voucher che considerano il lavoro merce, senza diritti e senza tutele. E taglia le risorse a sanità e scuola pubbliche, che pagano pesantemente il prezzo dell’inflazione; colpevolizza e colpisce i più poveri, andando verso l’abolizione del reddito di cittadinanza; non stanzia adeguate risorse per i rinnovi contrattuali pubblici.

Il governo usa ancora una volta i pensionati come bancomat, tagliando l’adeguamento all’inflazione delle pensioni di chi ha lavorato 40 anni; rende ancora più penalizzante e discriminante l’opzione donna e peggiora la situazione attuale con quota 103 (62 anni di età e 41 di contributi).

La lotta di questi giorni non può che essere l’avvio di una mobilitazione contro un governo di destra che – al di là delle chiacchiere – di “sociale” non ha nulla, si prepara a stravolgere la Costituzione e quel che resta dell’universalità dei diritti con la secessione dei ricchi dell’autonomia differenziata, imposta dalla Lega e sostenuta anche da “governatori” dem, e con un presidenzialismo autoritario è prono all’industria bellica e al peggiore e subalterno atlantismo.

Al contrario, abbiamo bisogno di continuare a collegare la lotta per la giustizia sociale alla mobilitazione pacifista per far cessare la guerra in Ucraina come tutte le guerre, contro il riarmo e l’invio di armi che alimentano la guerra e distruggono vite e territori.

Con queste lotte e questi impegni si chiude l’anno. Con questi obiettivi e nuove lotte continueremo nel 2023.

 

Qatargate: la Cgil parte lesa - di Giacinto Botti

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Mentre il mondo del lavoro, i pensionati, gli studenti manifestano e scioperano con la Cgil e la Uil, irrompe nel paese uno scandalo di enorme portata che crea in me, in noi, sconcerto, vergogna, indignazione e rabbia. L’avvilente verminaio che sta emergendo fra Strasburgo e Bruxelles fa male alle istituzioni europee, alla sinistra riformista e socialista, europea e italiana, al paese e a ogni onesto cittadino. Fa male alle Ong, ad ogni associazione di solidarietà e di impegno civile e sociale. Fa male al sindacato per gli accostamenti strumentali in atto, umiliando i militanti che lo sostengono e lo fanno vivere ogni giorno.

Corrotti e corruttori, fiumi di denaro riciclato, ricchezze smodate e poteri finanziari e lobbistici sono un’offesa al popolo degli onesti, a chi sta scendendo in piazza a manifestare. Nessun moralismo e sconto per nessuno, non rassegnazione ma rabbia di classe, sentimento di rivalsa verso tanta ingiustizia, voglia di cambiamento e di lottare: questa è la giusta risposta collettiva e individuale a questo scempio.

Più che nella politica, incapace di prevenire, di autocritica e di far pulizia al proprio interno, oggi confidiamo nella magistratura affinché proceda senza condizionamento a stabilire tutta la verità su questa vicenda infamante e sulle “personalità” intercettate, indagate e arrestate per “organizzazione criminale, corruzione e riciclaggio”, per aver incassato regali e mazzette dalla lobby dei mondiali in Qatar e non solo.

Questa per noi sindacalisti della Cgil è una ferita nell’animo, ed è cosa ancor più imperdonabile perché fatta sulla pelle dei lavoratori e sui diritti di un’intera popolazione.

Si sono fatti corrompere dall’emirato, con sacchi di soldi elargiti per favorire il sostegno del Parlamento europeo all’assegnazione dei mondiali di calcio al Qatar, solo per avidità e senso di potere. Rappresentanti spregiudicati delle istituzioni che hanno mentito e propagandato progressi inesistenti riguardanti i diritti umani e del lavoro e le condizioni di lavoro dei migranti in quel paese oscurantista e dittatoriale. Un paese dove sono morti a migliaia durante i lavori per garantire gli stadi e le strutture per il mondiale di calcio.

Allo stesso tempo non possiamo far finta di nulla e illuderci che la sporca valanga che si sta ingrossando e precipitando a valle non toccherà nell’immaginario collettivo la credibilità della nostra organizzazione. La destra, con i suoi organi di informazione, esulta senza pudore, e sta facendo un uso politico e strumentale dello scandalo, rimuovendo le pagine nere e nefaste del berlusconismo, le leggi “ad personam”, la corruzione e gli scandali che l’hanno attraversata e l’attraversano.

L’uso politico è facilitato dal coinvolgimento di personalità del socialismo europeo e di un ex eurodeputato Pd, fino a vent’anni fa dirigente milanese e nazionale della nostra organizzazione. Anche - speriamo non comprovato - del segretario generale appena eletto della Confederazione internazionale dei sindacati, di provenienza Uil, già segretario generale della Ces.

Si fanno accostamenti offensivi verso la nostra organizzazione, che lasciano il segno nella pancia e nella testa di tanti cittadini, in particolare in Lombardia. I giornali, soprattutto di destra, rilanciano e strumentalizzano per sostenere una campagna mediatica di stampo qualunquista, fondata sui soliti luoghi comuni: “rubano tutti”, “sono tutti uguali”.

È uno scempio che sta ammutolendo la parte onesta del paese, tante compagne e tanti compagni democratici, di sinistra, militanti e iscritti della Cgil, creando un clima di diffidenza che potrebbe portare all’abbandono dell’impegno, all’allontanamento dalle istituzioni, dai partiti e dalla nostra organizzazione. Ma la Cgil è parte lesa!

La questione comunque non si può rimuovere. Si parta da una profonda riflessione, una feroce autocritica su come e quando le istituzioni, i partiti, le organizzazioni hanno perso credibilità nel sentire popolare, quando le differenze morali ed etiche tra destra e sinistra si sono perse nel mare dell’affarismo, nel lobbismo, nel carrierismo, nell’avidità personale e di gruppo.

Il realismo cinico, la sete di potere e la realpolitik hanno prevalso sull’etica e su ogni valore. Troppi dirigenti politici progressisti, riformisti, democratici, sono divenuti consulenti del potere economico, lobbisti e procacciatori d’affari. La questione morale e la legalità sono spariti da tempo dai valori di una politica spesso inguardabile, priva di etica, rinchiusa nei propri palazzi.

L’occupazione da parte dei partiti delle strutture di potere, nelle aziende pubbliche o a partecipazione pubblica, nei gangli della finanza e dell’economia era stata sollevata già negli anni ‘80 da un grande e inascoltato dirigente del partito comunista, Enrico Berlinguer, oggi richiamato strumentalmente e a sproposito da parte di troppi ipocriti. La questione morale, l’etica della responsabilità, l’onestà, prima di essere questioni di ordine penale sono questioni politiche, di principio costituzionale, di sistema sociale e democratico. Nella corsa inebriante al potere e alla ricchezza personale tutto è divenuto lecito e giustificabile, e gli anticorpi istituzionali sono stati in parte neutralizzati, mentre nei partiti senza identità e rapporto di massa sono stati resi inutili.

È tempo di riaprire una discussione franca, coraggiosa su come si possano prevenire e combattere con severità gli episodi di corruzione, evitando di tollerare o peggio spostare altrove il problema. Questo deve valere a maggior ragione per un organismo sano com’è la nostra organizzazione. La responsabilità penale è individuale, ma quando si ricopre una carica istituzionale di rappresentanza, un incarico dirigenziale, un ruolo nel sindacato, soprattutto nella Cgil diviene questione collettiva e politica. Perché sindacalista della Cgil si è sempre, nel bene e nel male.

Mi interrogo da “anima bella” - così Panzeri chiamava chi nello scontro-confronto sindacale di allora continuava a credere con coerenza nelle cose che faceva e diceva - su come abbia potuto un dirigente affermato, con il quale si sono fatte tante mobilitazioni e iniziative, aver raggiunto tali livelli di spregiudicatezza e di tradimento degli ideali, dei valori per cui ci sentivamo parte della stessa organizzazione.

Questa domanda umana assilla molti dirigenti che, come me, l’hanno conosciuto e pure chi lo ha contrastato sul piano politico sindacale. Già, perché allora era un dirigente appartenente all’area dei “riformisti” e da poco alla guida dell’ufficio europeo della Cgil, iscritto ai Ds e dalemiano convinto. Fu protagonista e promotore, nel settembre del 2003, del documento dei 49, intitolato “Europa, Unità, Autonomia, Lavori”, che, nella dialettica democratica e nelle regole di pluralismo interno, si poneva in contrasto con le posizioni sindacali e le scelte assunte prima dalla Cgil di Sergio Cofferati e poi di Guglielmo Epifani. Da posizioni opposte, ci sentivamo comunque, con lealtà e rispetto, compagni e militanti della Cgil.

Occorre avere consapevolezza che la deriva culturale e individuale nel paese e nella politica bussa alla nostra porta e che nessuno può esserne con certezza esente; ci affidiamo individualmente alle compagne e ai compagni che ci stanno a fianco, collettivamente alle regole e ai principi etici e morali di una Cgil che ha storia e buoni anticorpi, da applicare e rafforzare, per curare, intervenire e prevenire questo contagio che ruba l’anima.

Siamo militanti di un’organizzazione con forti valori sociali e solidali, con profonde radici storiche nella sinistra politica e antifascista, nel movimento operaio internazionale. La nostra diversità non la proclamiamo, l’agiamo con coerenza e impegno ogni giorno come militanti della Cgil e nelle sue categorie, nei luoghi di lavoro, nella società, nelle sedi nazionali e territoriali, sempre più luogo di rappresentanza di ascolto e di accoglienza.

La nostra Cgil è parte lesa, e per storia e natura non è e non potrà mai essere la casa dei corruttori e dei corrotti.

Walter Massa: “L’Arci è arcobaleno anche nel dna” - di Frida Nacinovich

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Gli oltre 800mila soci dell’Arci hanno un nuovo presidente, Walter Massa, eletto in un congresso nazionale che si è svolto nel mezzo di una guerra terribile in Europa, e in una situazione non certo facile per le classi popolari che da sempre costituiscono la colonna vertebrale dei quattromila circoli diffusi in ogni angolo della penisola. In anni caratterizzati dalla crisi pandemica, ambientale ed economica, con la ciliegina avvelenata del conflitto russo-ucraino, la resistenza dell’Arci si chiama mutualismo, per combattere la solitudine e la paura che ne deriva, riscoprendo uno dei valori cardine delle case del popolo e delle società di mutuo soccorso legate all’associazione.

 

La bandiera dell’Arci ha i colori dell’arcobaleno, non è certo un caso. Quali sono i sentimenti dei soci di fronte a una guerra terribile, con lutti, sofferenze e devastazioni immani, che minaccia di proseguire ancora a lungo?

“I nostri sentimenti sono quelli del paese. La maggioranza degli italiani e delle italiane, ormai è risaputo, era e resta contraria all’invio delle armi. Ma a suo tempo il Parlamento votò il provvedimento, inspiegabilmente perché in questo modo faceva saltare l’ideale connessione che deve esserci fra governati e governanti. È stato un grande errore, perché dallo scoppio della guerra ad oggi l’unica cosa che i governi dei vari paesi europei hanno saputo fare è inviare armamenti. Credo che questo sia il dato più grave della situazione. Questo non significa ovviamente, come del resto spiegano tutti i trattati internazionali, non rispettare la legittima difesa del popolo ucraino, che va sostenuto. Significa invece che le diplomazie internazionali dovrebbero anche occuparsi di altro, non solo delle armi. E l’Unione europea, che era già debole prima, è completamente scomparsa come soggetto in grado di avere una sua linea diplomatica. Così l’Europa, a causa di questa guerra, è oggi completamente frantumata sul piano politico”.

 

Come si può contrastare la vulgata per cui chi chiede il cessate il fuoco e negoziati veri è automaticamente accusato di filo-putinismo?

“Dobbiamo fare i conti con la realtà. Realtà che nel corso di questi mesi di conflitto armato si è palesata in modo sempre più evidente. Il mondo è una cosa complessa, non si può pensare di affrontare i problemi dividendoci tra ultras di una fazione o dell’altra. Chiedere pace non significa non riconoscere, lo ripeto, il diritto degli ucraini a difendersi da un’aggressione militare devastante, che sta continuando a produrre morti. Questo è il dato. Credo sia necessario aprire gli occhi. Quando ci siamo resi conto, forse un po’ in ritardo, di cosa voleva dire l’escalation bellica, abbiamo portato in piazza più di centomila persone. E loro hanno manifestato anche in rappresentanza della maggioranza della popolazione, quella convinta che l’unica risposta non può essere l’invio delle armi. Per noi dell’Arci, che abbiamo una lunga storia di pacifismo di cui siamo orgogliosi, questa resta la questione principale. Da affrontare con un percorso di pace per il quale dobbiamo batterci”.

 

Ci sono state molte mobilitazioni contro la guerra in questi mesi, l’Arci non è mai mancata. Eppure l’opinione pubblica sembra affetta, come osserva anche il Censis, da un fatalismo che sconfina con l’abulia. Un’Italia ripiegata, sofferente ma incapace di reagire adeguatamente a quello che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi.

“Noi, senza voler riconoscere troppi meriti all’Arci, insieme alla Cgil e alle Acli siamo quelli che hanno creduto subito alla possibilità di dare una speranza alla pace. Avevamo percepito che c’era una necessità, un bisogno di scendere in piazza sui temi della pace. E credendoci più di altri siamo riusciti a mettere insieme centinaia di organizzazioni e a portare in piazza, appunto, quella pancia del paese che per una volta non è una pancia negativa ma positiva. Quella che continua a chiedere pace, perché la guerra si sta rivelando, oltre che devastante per il popolo ucraino, dannosa per la tenuta politica, economica e sociale di tutto il mondo e dell’Europa in particolare. L’Europa è entrata in questa guerra in una posizione già di debolezza e ne è uscita ancor più debole, spaccandosi ulteriormente al suo interno. Ed è stato un peccato, perché avendo una guerra ai propri confini c’erano tutte le condizioni perché l’Unione europea potesse svolgere un ruolo politico importante. Invece siamo al punto in cui le trattative le fanno solo i russi e gli americani, tra l’altro bypassando gli stessi ucraini”.

 

Per non parlare dei curdi, che hanno combattuto il califfato islamico ma ora sono usati come merce di scambio per accontentare il dittatore turco Erdogan, che si è posto come arbitro del conflitto.

“Le degenerazioni sono quelle, perché ovviamente si innescano dei meccanismi di ricatto, soprattutto nella diplomazia internazionale, che portano paesi come Svezia e Finlandia, con una storia di accoglienza e di rispetto dei diritti umani, ad accettare i diktat di Erdogan contro i curdi. Quindi è proprio saltato il tappo, e si è aperto il Vaso di Pandora. Forse bisognerebbe rendersi conto che indietro non possiamo tornare, perché non potremmo restituire nulla a chi con la guerra ha perso tutto. A chi ha visto morire i propri cari, a chi è rimasto sotto le bombe, a chi è rimasto ucciso al fronte. Non potremmo restituire nulla. Ma cominciare a invertire l’ordine delle priorità sarebbe importante in questa fase. Anche se mi sembra difficile, vedendo i comportamenti dell’attuale classe dirigente e quello che sta accadendo in Europa”.

 

Quando inizia l’anno, rinnovare la tessera dell’Arci nel proprio circolo è un gesto di resistenza civile. Ce la farete ad affrontare, dopo la pandemia, anche un governo piuttosto lontano dai vostri principi costituitivi?

“Se lo posso dire con una battuta, e lo è fino a un certo punto, l’ultima delle nostre preoccupazioni è il tipo di governo che abbiamo davanti. Piuttosto è il contrario, questo è un governo che ci dà molti stimoli per fare ancora di più. E credo lo faremo, io sono ottimista. L’ho visto in questo lunghissimo percorso congressuale che abbiamo affrontato, l’Arci non è uscita peggio da questa pandemia, e questo mi sembra un dato molto confortante. Basta pensare che durante la pandemia, con i circoli chiusi per un anno e mezzo, comunque 400mila persone hanno deciso ugualmente di iscriversi all’Arci. Per noi è stato un risultato molto importante, ci ha dato coraggio. Ed ora abbiamo due grandi obiettivi: dobbiamo aumentare il lavoro, che già svolgiamo, di cura e di prossimità sul territorio, cercando di riuscire ad avere almeno un circolo Arci in ogni comune italiano. E poi dobbiamo lavorare, insieme ad altri, su un vero e proprio progetto politico per la sinistra. Una sinistra che torni ad essere credibile e ad occuparsi dei territori. Che parta dagli ultimi, da quelli che hanno più bisogno, e che insieme a loro ricostruisca un percorso. Senza trasformarci in esercito della salvezza, non lo siamo mai stati. Ma costruendo emancipazione ed autodeterminazione”.

 

Le case del popolo toscane stanno aiutando gli operai della ex Gkn, fin dall’inizio della loro mobilitazione.

“È stata una grandissima prova di quello che possiamo fare in modo forte, imponente, sul territorio. Ad esempio al congresso c’è stato un ordine del giorno, approvato all’unanimità, che prevede di occuparci di tutti quelli che nei prossimi mesi perderanno il reddito di cittadinanza. Per noi quella è una sfida. Abbiamo una rete di presidio del territorio molto diffusa, abbiamo dei luoghi fisici, abbiamo delle compagne e dei compagni straordinari che hanno voglia di fare. Di fare anche politica, con le nostre peculiari modalità. E credo che dobbiamo dare a tutti l’occasione di rendersi utili per la propria comunità”.

 

Da politica e istituzioni tante belle parole, ma pochi fatti…

“Con la pandemia ci siamo resi conto meglio dei limiti della riforma del terzo settore. Perché c’è stato il tentativo, che ormai andava avanti da anni e con la pandemia è diventato assai evidente, di equipararci ai pubblici esercizi. Dato che non avevamo la partita Iva, contavamo meno di tutti gli altri quando si trattava di ottenere dei ristori. Allora abbiamo capito che anche quel gap va recuperato. Se dobbiamo essere uno strumento di welfare di prossimità che lavora insieme allo Stato, lo Stato deve evitare di massacrarci con la burocrazia e di impedire la piena attuazione dell’articolo 18 della Costituzione, che sancisce il diritto ad associarsi”.

Una risposta generale e articolata all’attacco a diritti, salari e pensioni - di Andrea Montagni

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Dal 12 al 16 dicembre, ad un anno esatto dallo sciopero contro il governo Draghi, Cgil e Uil sono tornati in piazza contro una manovra di bilancio neoliberista. Una manovra in continuità con le politiche di Draghi, accentuata dal disegno che via via si sta affermando con un ulteriore impoverimento del sistema di stato sociale universale, consegnando briciole all’assistenza (briciole che comunque vengono compensate con tagli pesantissimi come quelli all’erogazione del reddito di cittadinanza) e a scapito delle sue fondamenta lavoristiche. Con una politica fiscale che incoraggia il ricorso al lavoro autonomo a scapito del lavoro dipendente, dando ai singoli l’illusione di essere più liberi e di guadagnare di più. Mentre invece si creano le premesse per una voragine nel Sistema sanitario nazionale e nelle politiche di sostegno al reddito nei periodi di non lavoro, con un attacco al futuro previdenziale e, sopra ogni cosa, ai diritti sul lavoro.

L’intervento del governo con la mancata perequazione delle pensioni (la cosiddetta scala mobile) che ha beffato milioni di ex operai, impiegati, insegnanti, sanitari, sia del settore pubblico che privato nella fascia di età più alta, è a pieno titolo parte di questa politica. I sindacati dei pensionati e le confederazioni avevano riconquistato questo meccanismo (del 2001), ma già era stato ridotto con più successivi interventi, per essere sospeso nel periodo 2012-2015 e accantonato nel 2015. Una sentenza della Corte Costituzionale riaprì la partita, ma la politica non si è mai arresa: dal 2018 al 2021, nuovi interventi riduttivi e, soprattutto, mancata erogazione delle somme dovute.

L’ultima beffa è stata l’emanazione del decreto attuativo e l’annuncio in pompa magna sui giornali della rivalutazione (parziale per tutti e ridotta comunque per le pensioni più alte) a tre giorni dalla decisione di intervenire, negandola di nuovo al grosso delle pensioni da lavoro dipendente e facendo di un provvedimento previdenziale, che restituisce il valore dei contributi versati, un provvedimento assistenziale di natura caritatevole, usando i soldi tolti ad altri poveri come i percettori di reddito di cittadinanza. E a rischio sono anche in prospettiva le risorse strappate per l’autosufficienza!

La politica del governo tende a disarticolare la protesta dei lavoratori contrapponendo pensionati a lavoratori attivi, pensionati con la minima a pensionati con pensione media (la principale risorsa finanziaria del welfare familiare), lavoro dipendente in qualsiasi condizione a lavoro autonomo povero o subordinato.

La risposta – come dimostra la settimana di lotta - deve essere generale, anche perché è l’unica forma di lotta capace di parlare ai milioni di lavoratori, cittadini, ragazze e ragazzi che non hanno, nella società complessa contemporanea e nella precarietà dilagante delle condizioni di vita e di lavoro, i luoghi ove manifestare il proprio disagio e la propria rabbia che non siano le strade e le piazze, sperando di “bucare” il sistema dei media. E deve essere articolata, perché le cose complesse vanno spiegate e tutti i settori motivati. Non c’è contraddizione dunque tra le iniziative categoriali – tanto più di ampio respiro confederale come quella dello Spi di venerdì 16 dicembre – o come quelle specifiche intraprese in alcuni settori pubblici o nella prosecuzione delle agitazioni contrattuali.

La Cgil deve rimanere - e rimarrà, come credo il Congresso confermerà appieno - un sindacato confederale di classe. Capace di tenere assieme tutti i segmenti del lavoro. Con l’auspicio che presto, per rafforzare il legame tra la nostra gente, il sindacato dia vita ad una grande manifestazione nel Mezzogiorno, per la difesa e la riforma del reddito di cittadinanza, per il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro, e per l’autosufficienza, contro il progetto anticostituzionale di autonomia differenziata. Per l’Italia, una e democratica.

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