Il vivo e il morto di “Scrittori e popolo”. Un ricordo di Asor Rosa - di Fabrizio Denunzio

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Nel ricordare un autore che ha segnato profondamente con la sua opera il dibattito culturale del nostro paese, bisogna fare attenzione a non cadere nel pericolo segnalato fin dalle prime righe con cui quel magistero si apriva. Si legge infatti nell’Introduzione alla prima edizione di “Scrittori e popolo” del 1965: “L’abitudine italiana di venerare il passato e di trattare rispettosamente i miti nazionali”.

A leggere le commemorazioni scritte in occasione della morte di Alberto Asor Rosa, al netto di quelle schiettamente avverse di matrice reazionaria (si veda ad esempio il post di Marcello Veneziani sul suo blog, in sostanza un copia e incolla della stroncatura dell’asorrosiano “Il grande silenzio” pubblicata l’8 ottobre del 2009 sulle pagine de Il Giornale) si ha l’impressione di assistere proprio a un’operazione di questo tipo. Penso in parte all’intervento di Massimo Raffaeli su il manifesto, e soprattutto a quelli di suoi vecchi allievi come Manlio Lilli e Margherita Loy pubblicati su ilfattoquotidiano.it.

Credo che l’unico modo per sfuggire tanto alla venerazione quanto al rispetto di ogni mitologia rimanga il pensiero critico. Nel caso di “Scrittori e popolo”, questo vuol dire tornare oggi a vagliarne le principali proposte teorico-politiche alla luce del presente, per accertare ciò che di vivo e ciò che di morto è presente in esse, così da capire eventualmente quale uso farne.

Partiamo dal vivo e proiettiamolo in tre contesti differenti: quello internazionale, quello della ricerca scientifica e quello della formazione politica.

Primo punto. L’ascesa dei vari sovranismi nazionali fioriti nell’ultimo decennio (Trump, Bolsonaro, Orban, Salvini, Meloni) sicuramente ha fatto sì che la questione del populismo tornasse a imporsi con forza. Sebbene non nella forma di quello letterario ma in quella della più esplicita propaganda politica, l’entità popolo, sbandierata nella trita e triste formula variamente declinata negli slogan “America first” o “Prima gli italiani”, può ancora essere analizzata nei termini che Asor Rosa formulava ricavandoli dalla lettura parallela di Gioberti e Mazzini, ossia grosso modo come uno strumento in mano alle borghesie nazionali, da riempire di contenuti funzionali ai loro interessi di classe ma ‘condivisibili’ dai ceti subalterni. In particolare dalla piccola e media borghesia risentite dai vari cicli di crisi economica (a partire da quella finanziaria dei subprime del 2008 fino alle più recenti legate alla pandemia e alla guerra in Ucraina), e terrorizzata dal precipitare verso la proletarizzazione. Non c’è populismo che non sia nazionalista, non c’è nazione che si possa fondare senza popolo, detto altrimenti non c’è ‘sereno’ sviluppo del capitalismo industriale nazionale senza che l’antagonismo di classe si dilegui nel popolo.

Secondo punto. L’Università neoliberista italiana nata in seguito alla riforma Gelmini del 2010 ha fatto e sta facendo di tutto per distruggere quello “spirito di ricerca” che aveva consentito la nascita di “Scrittori e popolo”. Uno spirito che si alimentava innanzitutto di un sommo disprezzo per le competenze specialistiche imposte dai settori disciplinari - infatti nella Prefazione del 1966 scriveva Asor Rosa: “Della critica letteraria come tale non c’importa nulla” - e che trovava il suo compimento in una visione politica dei risultati della conoscenza: “Al limite si dovrà pretendere che da una ricerca condotta su materiali d’ordine culturale esca un risultato, che si colloca tutto al di fuori dell’area della cultura: un risultato da misurare, dunque, col metro decisivo della lotta di classe”.

Va da sé che rispetto a un conformismo accademico imposto dalle declaratorie dei settori scientifici, dai sistemi di valutazione (Vqr) e di progressione (Asn), dai temi di ricerca eterodiretti (si pensi a tutte le linee di finanziamento imposte dal Pnrr su transizione ecologica e digitale) o semplicemente mainstream, lo spirito di ricerca che animava “Scrittori e popolo” rimane ancora oggi l’unico che abbia un senso, e dia un senso alla propria attività scientifica.

Terzo e ultimo punto. Si collega direttamente al precedente, e sancisce il vincolo indissolubile che dovrebbe legare la ricerca alla prassi politica. “Scrittori e popolo” è anche un libro sul rapporto degli intellettuali italiani con la politica, il loro modo di concepire l’egemonia e la loro partecipazione alle classi dirigenti del paese. In questo senso è difficile dissociare il libro dalla stagione dell’operaismo e dal compito che gli intellettuali di quello schieramento si erano assegnati, ossia impegnarsi affinché nascesse, come scrive Asor Rosa sempre nella Prefazione del 1966, “una generazione nuova di dirigenti e di militanti rivoluzionari della classe operaia”.

Al di là degli esiti storici di questa missione che ha visto tanti dei suoi protagonisti prima criticare il Pci, poi confluirci dentro, per poi ancora impaludarsi nel Pd con fini disastrosi al limite del ridicolo (il più esemplare tra tutti è il voto favorevole di Mario Tronti al jobs act), ciò che di essa rimane ancora vitale è la necessità di continuare a formare e tenere attiva “un’ampia, diffusa esigenza rivoluzionaria”, lì dove per diffusa dobbiamo intendere un tipo di attivismo disseminato e deflagrato in ogni luogo e in ogni soggettività, senza che un apparato istituzionale ne detenga il monopolio. Una ‘paideia’ anonima, informale e impersonale che educhi alla rivoluzione in modo permanente.

Ora veniamo a ciò che di morto c’è in “Scrittori e popolo”. Sinceramente non ho mai creduto alla tesi sostenuta con fermezza da Asor Rosa che il suo libro non avesse “un patrimonio culturale nuovo da proporre al movimento operaio e alla classe operaia”. In realtà il modello c’è e non è difficile reperirlo, è sufficiente leggere con attenzione tutti i rimproveri rivolti dall’autore all’arretratezza dell’economia Italiana, alla mancanza in Italia di un capitalismo davvero moderno, all’assenza di un’industria che sapesse guardare ben oltre i confini nazionali, per capire che la cultura letteraria a cui movimento e classe operaia avrebbero dovuto riferirsi implicitamente era quella che veniva fuori dalla grande letteratura borghese europea del Novecento (da Proust a Thomas Mann).

Fermo restando il fatto che grandi produzioni narrative si sono avute e si hanno in paesi non sufficientemente industrializzati, pensiamo al romanzo russo dell’Ottocento o quello latino-americano del Novecento (e questo a dispetto dello schema eurocentrico che vede coincidere progresso socio-culturale con sviluppo tecno-capitalista), non ho mai capito perché, pur volendo accettare tale schema, Asor Rosa, solo per rimanere all’interno del perimetro asfittico della sola letteratura, senza guardare a tutte le altre forme narrative sviluppatesi nel Novecento, penso soprattutto al cinema, questo sì vero e proprio patrimonio culturale della classi subalterne, ebbene non capisco perché Asor Rosa non abbia assunto come riferimento implicito la letteratura dei paesi anglo-americani, quelli sì vera e propria avanguardia dei processi di modernizzazione capitalista. Penso, solo per fare qualche gramo esempio, a quei romanzi di grande ispirazione sociale come “Il popolo degli abissi” di Jack London, “La giungla” di Upton Sinclair, oppure ad un’inchiesta docu-narrativa del calibro de “La strada di Wigan Pier” di George Orwell, i quali brillano per assenza di popolo ma non di classe operaia.

Questo punto, decisivo ai fini della costruzione simbolica di un legame di fraternità che attraversi tutti i lavoratori del mondo, e che chiama in causa l’annoso problema dei rapporti tra marxismo e immaginario narrativo, meriterebbe un ulteriore spazio di approfondimento che ora non posso affrontare, ma che è importante segnalare.

Al di là di queste precisazioni, ciò che di inequivocabilmente morto c’è in “Scrittori e popolo” è la sua fiducia in questo schema evolutivo, che ha visto nell’ascesa di una grande borghesia industriale la garanzia di un altrettanto grande modello letterario. E questo perché, pur volendo riconoscere come radice sociale di questa fiducia il boom economico italiano degli anni sessanta del Novecento, nel cui clima matura la prima opera di Asor Rosa, elemento che debitamente proiettato a ritroso sulla scena letteraria europea di inizio secolo diventava ai suoi occhi il fattore di sviluppo della grande letteratura franco-tedesca, non possiamo non constatare che il contesto storico è radicalmente cambiato, e che oggi come oggi la borghesia neoliberista ha come unico orizzonte d’attesa il just in time. Il morto di “Scrittori e popolo”, allora, è la constatazione di ciò che c’è di morto nell’attuale borghesia industriale e finanziaria, ossia l’impossibilità di un’idea di futuro progettabile dalle classi dirigenti.

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