Il ritorno dello Stato in Occidente. Rischi e opportunità dopo la fine del neoliberismo (e non del capitalismo) - di Piergiorgio Desantis

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Paolo Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il Ritorno dello Stato, edizioni Nottetempo, pagine 272, euro 17.

“Rust in peace” scrivevano sui muri gli operai e i disoccupati inglesi dopo la morte della Thatcher. Oggi, invece, sono le politiche neoliberiste della “iron lady” a morire o, meglio, a esaurire la loro indiscussa egemonia ultratrentennale.

È questa la tesi di fondo dell’ultima opera “Controllare e proteggere. Il Ritorno dello Stato” di Paolo Gerbaudo. Il neoliberismo, nelle intenzioni di von Hayek, von Mises & co. mirava a privatizzare tutti i comparti (tranne le forze armate), fino a portare all’estinzione dello Stato. Tutto sarebbe stato gestito dal libero mercato e dagli “animal spirits” forieri di disuguaglianze e di distruzione di lavoro e delle imprese, oltreché del pianeta stesso.

Sappiamo che non è andata così. Le ripetute crisi proprie del capitalismo finanziario (ultima in ordine di tempo quella del 2008), le crisi sanitarie (Covid e malattie a elevata contagiosità) e crisi geopolitiche (conflitto in Ucraina e altri già attivi o con possibile innesco immediato), hanno dimostrato anche che il neoliberismo è semplicemente incompatibile con la realtà e con la salute delle persone e del pianeta. Resta comunque tra i sogni più proibiti delle classi dominanti occidentali, tra quelli di alcune forze politiche (a destra come a sinistra) che si ostinano a riproporre formule politiche già superate.

Secondo l’autore, si è passati, attualmente, ad un’altra “era ideologica”: quella del “neostatalismo”. Essa è caratterizzata da un ritorno a pieno titolo dello Stato tra gli attori che si muovono nella società. La triade delle parole chiave del neostatalismo è: sovranità, protezione, controllo. Tutte e tre non sono bestemmie ma possono avere una declinazione sia da destra che da sinistra.

Gerbaudo, riprendendo questa triade, elabora una serie di proposte proprie della sinistra cosiddetta populista. Tra le altre: spesa a deficit per grandi piani di investimento pubblici; politiche per proteggere la base industriale e garantire accesso ai beni strategici; nuove forme di protezionismo più o meno velate per difendere mercati e imprese; forme di pianificazione indicativa per affrontare cambiamento climatico e transizione verde.

Perfino in ambito europeo infatti si parla, anche se indirettamente, di ritorno dello Stato. Si utilizza lo strumento dei fondi del Pnrr che, pur senza una vera discussione parlamentare e con una consistenza forse insufficiente, danno senso a un tentativo di inversione di rotta, unitamente alla sospensione del patto di stabilità di Maastricht.

Le vere novità, talvolta sorprendenti, vengono da oltreoceano dove Biden, a partire dalla sua elezione, ha lanciato una massiccia dose di investimenti pubblici. Oggi si riesce ad approvare l’Inflation Reduction Act, ovvero 360 miliardi di dollari di sussidi pubblici alle imprese per promuovere nuove tecnologie “verdi”, a condizione che i posti di lavoro creati siano nel territorio americano.

Queste politiche espansive americane hanno spiazzato l’Ue e alcune partnership già avviate (ricordiamo Intel e gli investimenti per la produzione di semiconduttori in Europa), che sono a rischio proprio per questi notevoli investimenti pubblici americani. Addirittura su “Il Sole 24 ore”, il 22 gennaio scorso, Sergio Fabbrini nel suo editoriale chiede a gran voce “la creazione di un Fondo sovrano europeo […] per produrre, cioè, beni pubblici europei (da centri di ricerca europei a infrastrutture tecnologiche transnazionali)” proprio in risposta all’iniziativa americana.

È evidente che tira un’aria diversa rispetto a quella degli anni ’80. Perfino nella patria natìa del neoliberismo ritorna una grande politica di investimenti pubblici per contrastare il declino economico. È probabile uno scontro con l’Unione europea mentre è già in atto da tempo quello con la Cina.

Su quest’ultima e sull’Oriente sarebbe necessario un ulteriore approfondimento, ma il libro di Gerbaudo è illuminante e utile perché, utilizzando un dettagliato sfondo di storia economica, ci mostra una nuova fase caratterizzata proprio dalla necessità (pena la recessione più dura) di uno Stato presente in economia con tutte le sue leve. Grazie a questo cambio di vento, tra l’altro, si potrebbero ridispiegare le vele per una ricostruzione della sinistra europea, ripartendo da politiche che abbiano al centro la salvezza dell’uomo e del pianeta.

 

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