Ex Ilva Taranto, resistenza operaia forgiata nell’acciaio - di Frida Nacinovich

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Nel groviglio di contraddizioni quasi insuperabili che accompagnano l’esistenza del polo siderurgico più grande d’Europa, una delle poche certezze è che migliaia e migliaia di lavoratori restano invariabilmente appesi a un filo sottile, che rischia sempre di spezzarsi. Stretti fra la necessità di produrre l’acciaio sempre più richiesto dopo gli anni della pandemia, e gli annosi problemi ambientali che caratterizzano l’esistenza dell’ex Ilva, gli operai si trovano fra l’incudine e il martello. Per giunta l’ingresso dello Stato per mezzo di Invitalia nel capitale sociale aveva suscitato speranze, andate poi deluse perché le redini dell’azienda restano saldamente in mano alla multinazionale franco-indiana, un’Arcelor Mittal che, con la ‘sua’ amministratrice delegata Lucia Morselli, persegue una strategia di bassa produzione e di tanta, tantissima cassa integrazione per i quasi 11mila dipendenti delle attuali Acciaierie d’Italia, di cui più di 8mila a Taranto. Lavoratrici e lavoratori che guardano, sempre più disillusi, all’incerto futuro di un sito produttivo sì inquinante ma necessario per l’intero sistema manifatturiero italiano.

Matteo Spadaro è entrato nell’ex Ilva vent’anni fa, nel novembre 2002, all’epoca in cui le acciaierie marciavano a pieno regime. “Ora l’amministrazione straordinaria ha messo migliaia di noi in cassa integrazione, e c’è il rischio che 1.600-1.700 addetti diventino esuberi strutturali, insomma che non siano più da considerare nel perimetro aziendale”. Scuote la testa Spadaro, sindacalista della Fiom Cgil: “Quest’anno nel documento che l’azienda ci ha sottoposto, unicamente in videoconferenza - spiega - si prevede una produzione di soli 4 milioni di tonnellate di acciaio, scegliendo di tenere un altoforno chiuso. Mentre con 6 milioni di tonnellate annue tutti i dipendenti di Taranto potrebbero tornare al lavoro. Questo piano industriale fa sì che si produca meno di quanto richiede il mercato”.

 Una situazione da cui è difficile uscire, come è difficile uscire dai problemi ambientali legati al funzionamento del colosso siderurgico pugliese. “Non si può negare che, negli anni in cui la produzione andava a pieno regime, c’erano fortissime ripercussioni negative sull’ambiente circostante, in primis sui lavoratori sempre sotto pressione, ma anche sull’intera città di Taranto. Ora si sta cercando di correre ai ripari, qualcosa è stato fatto, ma troppo poco, c’è ancora tanto lavoro da affrontare. Però Mittal pensa solo a fare cassa, senza tener conto delle esigenze dei lavoratori e della città”.

Spadaro vede un’unica via d’uscita per un’azienda strategica come le Acciaierie d’Italia, la diretta presa in carico da parte dello Stato. “Visto che è entrato nel capitale sociale con una forte quota azionaria, ha il dovere di decidere autonomamente la strategia di azione perché lo stabilimento possa produrre di più con meno inquinamento”. Perché l’ambiente e la sicurezza sul lavoro sono priorità da cui non ci si può sottrarre. “Vogliamo produrre di più - sottolinea il sindacalista della Fiom Cgil - ma al tempo stesso tutelare l’ambiente, i lavoratori, i cittadini. Sia in fabbrica che in città tante, troppe persone si sono ammalate gravemente. Recentemente ho perso un amico, un collega, per le conseguenze di un tumore alla vescica. E questo non è un caso isolato, tutt’altro. Credimi, è una situazione intollerabile. Facciamo un gran parlare di transizione ecologica, ma almeno qui a Taranto si è visto poco o nulla. Eppure le tecnologie ci sarebbero”. Perché le acciaierie negli altri paesi europei, in primis la Germania, sono molto più attente alla tutela dell’ambiente, e di chi materialmente produce l’acciaio.

Spadaro è addetto alla distribuzione e al trattamento delle acque necessarie per il funzionamento degli impianti. “Mi muovo lungo l’intero perimetro dello stabilimento, fino al porto. Negli anni sono diventato capo squadra, ogni colata richiede il nostro intervento”. L’orgoglio operaio traspare dalle sue parole quando spiega che se la fabbrica resta in piedi è solo grazie al quotidiano, duro e rischioso lavoro di tanti operai esperti come lui. “Quando sei dentro una fabbrica da più di vent’anni e ne hai 45, lo stabilimento diventa inevitabilmente un pezzo essenziale della tua vita. Alla fine lo ami questo lavoro, anche se è duro e rischioso, non hai più solo colleghi, hai degli amici. L’incertezza del futuro fa ancora più male. Alle volte vai avanti per senso del dovere”.

Spadaro pensa ai tanti compagni in cassa integrazione, con un salario che non supera i 1.200 euro al mese e una famiglia da mantenere. “Diciamo la verità, questa fabbrica interessa più a noi che ci lavoriamo dentro che ai padroni di turno”. Una storia non nuova, nell’Italia degli ultimi trenta, quarant’anni.

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