Una spinta alla precarietà mascherata da sostegno alla contrattazione - di Claudio Treves

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Una domanda s’impone da subito, nel commentare i provvedimenti del governo sul lavoro: se ne sentiva il bisogno? Già, perché ogni misura sul lavoro dovrebbe avere una qualche relazione col contesto nel quale è chiamata ad agire, e l’Istat da diversi mesi (l’ultima di pochi giorni fa) segnala che l’occupazione, così come il Pil, sta mostrando dinamiche non negative, caratterizzate dalla crescita sia del dato totale che di quello, sempre molto problematico per l’Italia, dell’occupazione femminile. Inoltre cresce il peso dei contratti a tempo indeterminato, pur restando assai alta la percentuale dei rapporti a termine: in altre parole si consolida la polarizzazione del mercato del lavoro.

In queste circostanze, proprio seguendo la teoria neoclassica cui si ispira ogni compagine di destra, non ha senso promuovere ulteriori allentamenti delle tutele del lavoro, ma servirebbe invece l’opposto, ossia misure che favorissero la stabilizzazione dei rapporti. Invece nel governo ha prevalso non la teoria, ma l’istinto di classe, la scelta di assecondare gli istinti più retrivi dell’imprenditoria nostrana, rappresentata al governo dalla ministra del lavoro e dalla sua collega Santanché, che “risarcisce” i suoi colleghi del turismo, costretti a soggiacere all’obbligo della messa a bando delle concessioni balneari, con un ampliamento della facoltà di ricorrere ai voucher fino a 15mila euro.

Ma il grosso dei provvedimenti in materia di lavoro riguarda il contratto a termine e il reddito di cittadinanza: gli scalpi da esibire sono il decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, entrambi – curiosamente – emanati da un governo di cui era parte costitutiva la Lega di Salvini. Una Lega che, incurante del ridicolo, plaude ora all’esibizione, forse perché si sente compensata dal sostanziale ripristino delle “sue” misure contro l’accoglienza dei migranti.

Aldilà di queste tristi amenità, sulle modifiche al decreto Dignità vale la pena di spendere qualche parola, prendendo sul serio la difesa fattane dalla ministra del Lavoro. La quale ha osservato due cose: la prima, che le nuove norme non favoriscono la precarietà né sono una liberalizzazione del ricorso al contratto a termine, perché rimandano alle causali definite dalla contrattazione collettiva, e che, in secondo luogo, le novità, riguardando solo i rapporti di durata superiore ai 12 mesi, riguarderebbero una piccolissima parte (2,7%) degli attuali contratti a termine, dato che la stragrande maggioranza dei rapporti oggi vigenti è già priva dell’obbligo di causale per effetto del decreto Dignità.

Tutto vero, ma soltanto quasi. Il testo recita (art.24) che il ricorso ai contratti a termine è possibile: a) nei casi previsti dai contratti collettivi; b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; c)per sostituire altri lavoratori.

La novità sta al secondo punto: per un anno “le parti”, ossia il datore di lavoro (e casomai il suo consulente) e il singolo lavoratore, potranno stipulare ‘al momento della sua possibile assunzione’ un contratto a termine per esigenze tecniche, organizzative o produttive: è evidente che il potere negoziale è quanto meno sbilanciato.

Non solo, ma collegate questo fatto col primo punto del comunicato: se il datore può affidarsi alla “contrattazione” col singolo lavoratore, può anche utilizzare questa facoltà nell’ambito della contrattazione aziendale con la Rsa/Rsu: “se non mi sottoscrivete le causali che voglio, sappiate che posso ricorrere al rapporto individuale con ciascuno dei lavoratori prossimi da assumere…”. È evidente che il ricorso alle causali definite dalla contrattazione collettiva è per lo meno viziato da un indebolimento strutturale, e che il mondo del lavoro che vedremo dal 1° maggio 2025 potrebbe essere stravolto, nel senso di una torsione “individualistica” dei rapporti istituiti in questo periodo.

Quanto alla seconda giustificazione esibita dalla ministra, essa è invece perfettamente vera: sono pochissimi, e per giunta in calo, i rapporti a termine di durata superiore all’anno. Ma da ciò la conclusione tratta dalla ministra potrebbe – anzi dovrebbe – essere rovesciata: proprio perché la stragrande maggioranza dei rapporti a termine è già oggi senza causale, non solo il suo incremento è privo di senso (vedi le considerazioni iniziali di queste note), ma proprio per questo, e per la quota apparentemente strutturale di rapporti a termine di durata breve e reiterata, si dovrebbe porre – da parte della sinistra, della coscienza democratica – non la difesa dell’esistente ma la piena attuazione del principio per cui la forma comune del rapporto di lavoro è quella a tempo indeterminato, con la conseguenza inevitabile che ogni rapporto non a tempo indeterminato deve essere giustificato (e conseguentemente soggetto a possibile scrutinio giuridico).

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