Cuneo fiscale: una risposta insufficiente in un quadro pericoloso - di Cristian Perniciano

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Nel decreto lavoro, il cosiddetto decreto 1°maggio, ovvero il Dl 48 del 4 maggio 2023, assieme alla liberalizzazione dei contratti a tempo determinato si è prevista la riduzione dei contributi previdenziali nelle buste paga dei lavoratori dipendenti con redditi inferiori a 35mila euro.

Al netto di alcuni problemi (ad esempio che chi guadagna 35.001 euro rischia, per quell’euro in più, una perdita secca di 90 euro nette al mese) questo provvedimento è in linea con quanto richiesto dal sindacato, anche unitariamente, già al governo Draghi. Il quale si era più timidamente attestato su un 2% di decontribuzione. Il motivo per cui il sindacato ha chiesto di intraprendere la strada della decontribuzione è la volontà di fornire un sollievo anche ai redditi più bassi, attualmente incapienti, e che quindi non sarebbero nelle condizioni di beneficiare di una riduzione Irpef. Il tutto avrebbe dovuto essere accompagnato dall’indicizzazione delle detrazioni all’inflazione per tutti, lavoratori e pensionati, cosa che il governo non ha alcuna intenzione di fare.

Quindi non tutte le richieste del sindacato per reagire, per via fiscale, alla fiammata inflattiva sono state accolte, e la Cgil è comunque assai insoddisfatta delle politiche fiscali, e ancor più di quelle salariali, che questo governo sta ponendo in atto.

Il vero problema, infatti, è che anche i provvedimenti fiscali “migliori” di questo governo vengono attuati all’interno di un progetto sbagliato e pericoloso. La prima ipotesi di estendere la decontribuzione da parte di questo esecutivo la troviamo, infatti, nel Def dello scorso aprile, nel quale si esplicita chiaramente che il progetto è quello di utilizzare il taglio delle imposte al fine di “evitare incrementi salariali e la spirale salari-prezzi”. Usare quindi la riduzione delle imposte con l’esplicito fine di evitare che i salari lordi aumentino. Questa visione appare ancor più rafforzata dalla legge delega per la riforma del fisco che il Parlamento dovrebbe approvare entro luglio del 2023 (secondo il viceministro Leo).

In quella legge delega troviamo tutto l’armamentario tipico di una visione di destra non solo del fisco, ma in generale della funzione dello Stato. Si punta infatti alla flat tax, alla riduzione delle imposte sulle imprese, ad aumentare le imposte cedolari e separate rafforzando la tendenza, già in atto da anni, di relegare l’Irpef e la sua residua progressività ai soli redditi da lavoro e da pensione. Si prevede di abolire l’Irap, di favorire l’elusione fiscale sui redditi di capitale e le plusvalenze, di porre in atto, dopo i tanti condoni già approvati nei primi sette mesi di governo, il “concordato biennale preventivo”, di fatto un condono preventivo generalizzato per i lavoratori autonomi e le piccole imprese, i quali definiranno in anticipo il loro reddito presunto, e su quello andranno a pagare imposte anche se l’effettivo fosse superiore.

Il tutto avendo come obiettivo la riduzione della pressione fiscale generalizzata, come ricetta per la crescita, e la riduzione delle imposte sull’impresa per attrarre capitali. Insomma, nulla di nuovo rispetto alle (sbagliate) ricette degli anni ‘80 dei campioni della destra liberista anglosassone, Reagan e Thatcher: ridurre le imposte ai ricchi, disintermediare, depotenziare i corpi intermedi, ridurre al minimo lo Stato e lasciare che il mercato crei ricchezza.

Ovvio, quindi, che, se non possiamo che essere soddisfatti se il governo accoglie (in parte, e con un provvedimento valido solo per sei mesi, da luglio a dicembre) le proposte del sindacato in materia di riduzione del cuneo fiscale in busta paga, non possiamo non evidenziare che l’impostazione complessiva dei provvedimenti governativi è assai pericolosa.

La stessa riduzione delle imposte per le famiglie di lavoratori e pensionati con redditi medi e bassi, nella nostra rivendicazione, dovrebbe essere compensata con un maggior prelievo sui redditi alti, sulle rendite, e più in generale sui frutti dei grandi patrimoni, sugli extraprofitti, sulle transazioni finanziarie.

Inoltre, la crescita di cui necessita il nostro paese non può certo fondarsi su meno tasse e su un mercato con “le mani più libere”, ma sugli investimenti, pubblici e privati, sulla creazione di lavoro a partire da quello pubblico, sul welfare che crea servizi e lavoro ad alto valore. Su linee di politica industriale che guidino la crescita lungo i sentieri della transizione verde e digitale.

 

Infine, le politiche salariali non possono essere condotte solo attraverso la riduzione delle entrate, ma c’è necessità che innanzitutto si rinnovino i contratti collettivi nazionali, a partire dai pubblici, che si renda stabile il lavoro e lo si valorizzi come principale elemento di crescita economica e sociale.

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