L’ecatombe di Pyros sulla coscienza di una Fortezza Europa chiusa ai migranti - di Leopoldo Tartaglia

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Una strage sei-sette volte più grande di quella di Cutro quella avvenuta a Pyros, nel mar Egeo, vicino alle coste del Peloponneso. Con una dinamica del tutto simile: un barcone sovraccarico di uomini, donne e bambini che hanno pagato migliaia di euro ciascuno all’organizzazione criminale di scafisti; l’avvistamento di Frontex – agenzia europea che si può a buon diritto definire organizzazione per i respingimenti – che segnala il pericolo per i migranti ai governi dei paesi costieri; l’omissione di soccorso o, peggio, il tentativo di trainare la barca in acque internazionali invece di approntare le necessarie misure di soccorso; il tardivo intervento ad affondamento avvenuto.

Pochi i superstiti, centinaia le vittime, di cui probabilmente non sarà nemmeno possibile recuperare i corpi. Lo strazio dei sopravvissuti e la disperazione dei familiari delle vittime. Il governo greco – diversamente dall’arroganza di quello della “cristiana” Meloni – piange lacrime di coccodrillo e indice tre giorni di lutto nazionale.

Ma la vera e propria guerra dell’Unione europea contro i profughi e i migranti non ha il benché minino ripensamento. Se la strage di Cutro è stata seguita dall’omonimo decreto che rende ancor più chimerica la possibilità per i richiedenti asilo di essere accolti in Italia, la strage di Pyros è stata preceduta di qualche giorno dal vertice dei ministri dell’interno dell’Ue, che hanno trovato un faticoso e non unanime accordo per “riformare” le procedure di frontiera e dell’asilo.

L’accordo, che ha riscritto la proposta fatta dalla Commissione, dovrà essere discusso dal Parlamento europeo per l’approvazione. Le nuove regole prenderanno il posto del famigerato regolamento di Dublino III. Teoricamente introducono quote obbligatorie per il ricollocamento dei migranti, che in realtà rimangono facoltative: tutti gli Stati dovranno partecipare alla redistribuzione dei migranti con una quota minima di 30mila ricollocamenti all’anno, ma in alternativa potranno versare un contributo di 20mila euro a migrante al fondo comune per la gestione delle frontiere esterne.

Rimane il principio del regolamento di Dublino secondo cui il primo paese di ingresso in Ue è responsabile delle domande di asilo. L’esame delle domande dovrà avvenire con una “procedura di frontiera” e concludersi entro 12 settimane dalla presentazione; il paese responsabile della domanda di asilo rimane sempre il paese di primo ingresso in Europa, e il periodo durante il quale uno Stato ha la responsabilità dei migranti arrivati sul suo territorio si allunga da dodici a ventiquattro mesi.

La vera novità consiste nel fatto che gli Stati membri avranno autonomia nel definire un paese di partenza o di transito come “sicuro” e quindi potranno attuare respingimenti anche verso un paese di passaggio (e non solo un rimpatrio verso il paese di origine).

Come hanno subito denunciato le Ong attive nell’accoglienza ed esperti di politiche migratorie, si tratta in realtà di un accordo che viola la Convenzione di Ginevra ed altri trattati internazionali, basandosi sui respingimenti e mettendo in seria discussione il diritto d’asilo. Ciò nonostante Polonia e Ungheria hanno votato contro le nuove regole, perché si oppongono ai ricollocamenti, mentre Malta, Lituania, Slovacchia e Bulgaria si sono astenute.

Il nuovo patto è stato duramente contestato dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani, preoccupate in particolare che tutto diventi “procedura di frontiera”, cioè una procedura sommaria di esame delle domande di asilo, e si stravolga il concetto di paese terzo sicuro.

La stessa logica di respingimento e di esternalizzazione delle frontiere europee, del resto, sta alla base dell’attivismo di Meloni e della Commissione europea nei confronti della Tunisia. L’11 giugno scorso Meloni, von der Leyen e il primo ministro olandese Rutte sono stati a Tunisi per convincere il presidente Kais Saied ad attuare le riforme economiche – cioè tagli e privatizzazioni - richieste dal Fmi, in cambio del prestito da due miliardi di dollari necessario a salvare il paese dal default.

Se l’accordo con il Fmi sarà concluso, l’Ue darà a Tunisi altri 900 milioni di euro, 105 dei quali destinati ad un nuovo accordo sul controllo della migrazione e l’aumento dei rimpatri. Saied ha assicurato il suo impegno nella chiusura delle frontiere meridionali della Tunisia, ma ha replicato di non essere disponibile ad aprire centri in cui siano rimandati anche non tunisini, come chiedono Italia e Ue, anche a seguito del nuovo patto sulla migrazione che permetterà di respingere i migranti in paesi terzi.

 

Per affrontare la grave crisi economica, sociale e democratica del paese – come sostiene anche il sindacato Ugtt – servirebbe una politica diametralmente opposta dell’Italia e dell’Ue: prestiti incondizionati e canali regolari di accesso per tunisini in cerca di occupazione.

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