Sulla “via maestra”: il 7 ottobre la Cgil ancora in piazza per la democrazia, il lavoro, il cambiamento - di Giacinto Botti

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Il 7 ottobre a Roma la Cgil, insieme a tante associazioni antifasciste, pacifiste, ambientaliste, femministe, Lgbtqi+, torna in piazza per costruire un percorso militante, di partecipazione di un popolo e del mondo del lavoro, che porti all’inevitabile sciopero generale contro un governo di destra liberista, classista e razzista, pericoloso per la tenuta democratica e sociale del paese.

Ci saremo, con le nostre idee e proposte, con la nostra autonomia, per contrastare la deriva nazionalista del governo, contro un’Unione europea guerrafondaia, senza politiche sociali e subalterna al mercato, alla Bce e alle sue politiche recessive.

In piazza per cambiare il paradigma, ricostruire adeguati rapporti di forza tra capitale e lavoro, redistribuire la ricchezza e porre al centro il diritto al lavoro e ad un salario di dignità. Diritti sociali e civili si tengono insieme, per un modello di sviluppo rispettoso dell’ambiente e della vita umana, per difendere lo Stato sociale e riaffermare il valore della sanità e della scuola pubblica, contro i tagli e le privatizzazioni in atto.

Il governo scarica i costi della crisi economica, sociale e ambientale sulla classe lavoratrice, sui pensionati, sui giovani e le donne. Un governo autoritario e regressivo, pieno di nostalgici, patriarcale, oscurantista verso le donne e il “diverso”, razzista verso gli immigrati, vigliacco e crudele con i deboli, criminalizzante verso i giovani, bellicista nell’alimentare la guerra, indisponibile a diplomazie di Pace, succube degli interessi Usa.

La presidente del consiglio lascerebbe morire di stenti nel deserto, affogare, o marcire per 18 mesi nei lager italiani o libici e tunisini uomini, donne e bambini che fuggono da guerre, fame e dittature. Il ‘capitano’ Salvini dichiarerebbe guerra ai barconi dei disperati. La crudeltà del potere, l’ansia del consenso elettorale portano al disprezzo della vita umana. Non possiamo aspettarci dalla presidente del consiglio di abiurare al ventennio fascista o di prendere le distanze dai suoi nostalgici ministri, perché Giorgia Meloni era e rimane vicina a quelle idee. Ecco perché è necessaria una battaglia, anche culturale, per la difesa e l’applicazione della nostra Costituzione!

La crisi del neoliberismo riporta al primato della politica sull’economia e sul mercato, e destra e sinistra tornano ad avere il senso politico della loro esistenza. C’è bisogno di alleanze, di politiche e di scelte alternative, di una sinistra politica non equidistante tra padroni e lavoratori, tra impresa e sindacato.

 

Lo scontro è generale, non sarà breve né facile. C’è bisogno della Cgil, del nostro impegno per il cambiamento, per una società che metta al centro la persona, il pianeta e non il mercato e il profitto.

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Fin dal titolo “L'Italia ripudia la guerra”, l'incontro pubblico fra Maurizio Landini e il fondatore della Comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, aveva l'obiettivo di ricordare ancora una volta quanto siano immani i costi umani, materiali e immateriali di un conflitto che poteva essere evitato, se solo ci fosse stata la volontà politica di scegliere la strada della diplomazia invece di quella delle armi.

Il segretario generale di una Cgil che fin dall'inizio ha preso posizione a sostegno del cessate il fuoco, del negoziato come unica soluzione possibile, e del rifiuto di quel riarmo generalizzato – facilmente prevedibile - che ha accompagnato in questo anno e mezzo le operazioni militari, è stato chiaro: “Quando si parla di aumento dei prezzi o di crisi economica in corso, dobbiamo ricordarci che c'è una guerra che indebolisce l'Europa, che si sta dimostrando sempre più solo come un luogo geografico incapace di misurarsi con questi problemi”.

“Perché l'Europa non sta seguendo la via del negoziato, visto che innanzitutto è suo interesse così come lo è per l'Italia?”. L'interrogativo di Landini è lo stesso che ha portato una parte consistente dell'opinione pubblica, non solo italiana visto quanto accade negli stessi Usa, a maturare un sano scetticismo, anche al di là dei peculiari orientamenti politici. “Non è accettabile che l'unica vera iniziativa in campo sia quella del Vaticano – tira le somme il segretario – questo significa che la pace non è un obiettivo dei governi e delle realtà internazionali”.

“Abbiamo avuto fin da subito sentore del rischio che la guerra in Ucraina si 'eternizzasse' – ricorda a sua volta Riccardi - avendo sotto gli occhi la crisi senza fine in Siria”. Una situazione che si sta puntualmente riproponendo. Con morti e distruzioni quotidiane, esodi di massa, e una massiccia militarizzazione che, come sempre accade, va a scapito degli investimenti necessari per far vivere più decentemente le popolazioni.

 

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Emergenza sbarchi o emergenza elettorale? - di Leopoldo Tartaglia

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Dunque il governo Meloni getta la maschera e rilancia politiche ferocemente repressive, dopo alcuni mesi in cui sembrava aver “accettato” con maggior pragmatismo la realtà di fatto dell’arrivo autonomo di profughi e migranti sulle nostre coste. Dopo il feroce decreto Cutro infatti, al di là della propaganda e della facile, quanto fallace, continuazione delle politiche di esternalizzazione delle frontiere e di ostacolo ai soccorsi delle navi Ong, il governo sembrava voler dimostrare una maggiore attenzione alla ricerca di accordi in sede europea e alle politiche di ingresso regolare. Basti ricordare la programmazione di oltre 450mila ingressi tramite “decreto flussi” nei prossimi tre anni: la metà delle richieste del mondo produttivo ma ben più alte dei flussi programmati nell’ultimo decennio (30.850 erano gli ingressi previsti dal decreto flussi di Salvini ministro dell’Interno).

Non è difficile vedere che, dietro la decisione di Meloni di respingere e reprimere sempre più profughi e migranti, più dell’emergenza sbarchi conti l’emergenza elezioni europee. Il suo principale alleato-concorrente, Matteo Salvini, ha da tempo avviato la campagna elettorale della Lega rispolverando il tema della lotta alla immigrazione “clandestina”. Facendo chiaramente capire che Meloni non è conseguente – per incapacità o non volontà – alle promesse elettorali e al programma del centrodestra.

Certo, la situazione degli arrivi, soprattutto via mare, è drammatica e in aumento esponenziale rispetto agli ultimi anni. Quanto sta avvenendo a Lampedusa, però, dimostra l’impossibilità di fermare l’immigrazione a monte – come continuano a sostenere Meloni, Salvini e Piantedosi, sapendo di mentire. Ed è la conseguenza di scelte precise del governo che, smantellando il sistema di accoglienza, ostacolando il soccorso in mare da parte delle Ong, evitando di programmare il soccorso istituzionale della guardia costiera – che pure dopo Cutro sta salvando migliaia di naufraghi – ha voluto scientemente creare una situazione insostenibile a Lampedusa come “forma di pressione” verso l’Ue e riproposizione di una falsa emergenza.

Nel 2016 sono sbarcati in Italia oltre 180mila migranti: quella che allora la destra definì un’invasione è stata tuttavia gestita – anche se malamente, soprattutto per i profughi – senza aver comportato particolari problemi per il Paese: si è trattato pur sempre di 3 persone ogni 1000 residenti! Lungi dall’invasione, anche quell’anno la popolazione residente in Italia ha continuato la sua curva discendente (tanto che oggi siamo 58,2 milioni dai 60,8 del 2014, migranti regolari inclusi che da un decennio non superano i 5 milioni).

Ma che esista un’alternativa alla mala-accoglienza, ai respingimenti e alla condanna a morte in mare o nelle rotte terrestri, lo dimostra la drammatica vicenda dei profughi ucraini. In fuga dall’invasione russa, in poche settimane in Italia ne sono giunti oltre 170mila. Di questo massiccio arrivo quasi non ce ne siamo accorti. Non solo perché sono extracomunitari europei. La condizione decisiva è stata la decisione della Commissione europea di applicare finalmente e per la prima volta la Direttiva europea 2001/55/Ce, vecchia appunto di oltre vent’anni, con la concessione immediata del permesso di soggiorno temporaneo. Questo ha consentito a queste sfortunate persone di inserirsi più agevolmente nel tessuto sociale italiano (e degli altri paesi europei: sono oltre 5 milioni nell’Ue) avendo pressoché pari diritti degli altri cittadini, in primis la possibilità di cercare e ricevere un lavoro regolare.

La domanda: “perché agli ucraini sì e agli altri no?” non riguarda solo la giustizia, i diritti umani, la consapevolezza di un razzismo sociale e istituzionale, ma molto praticamente la capacità di gestire flussi migratori e accoglienza di fronte al fallimento delle disumane politiche securitarie e di respingimento.

Certo, non è così semplice definire che “tutti” quelli che arrivano in Italia o in Ue possano immediatamente avere una permesso di soggiorno temporaneo rinnovabile - come giustamente avviene per gli ucraini – ma questa esperienza dimostra che si possono e debbono trovare strade alternative al circuito carcerario e concentrazionario creato di fatto per i richiedenti asilo e protezione umanitaria, lasciati per mesi ed anni in situazioni disumane, in attesa di risposte, denegati nei loro diritti, spesso inutilmente espulsi, costretti nei centri di rimpatrio, che altro non sono che galere dove si entra senza aver commesso reati e senza alcun processo.

Costruirne altri, affidati all’esercito, in cui rinchiudere i migranti fino a 18 mesi è un costo umano ed economico tanto criminale quanto inefficace. Come tutti capiscono – per primi Meloni, Salvini e Piantedosi – non può avere nemmeno alcun effetto deterrente per persone che affrontano mesi ed anni di stenti e violenze, e il rischio concreto della morte, per andarsene dal loro paese e raggiungere l’agognata Europa. Che, palesemente, non li merita, anche se ne ha assoluto bisogno.

 

Sul salario minimo e dintorni - di Claudio Treves

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Sono felice della proposta delle forze di opposizione (AC1275) e che ciò abbia determinato la prima autentica difficoltà del governo. Le osservazioni sono quindi di sostegno al provvedimento e all’iniziativa che ne è alla base.

L’Istat ha quantificato la popolazione lavorativa povera partendo dagli anni ’90: calo del lavoro autonomo tradizionale e crescita di figure nuove (collaborazioni, prestazioni occasionali); calo tra i dipendenti del tempo pieno e indeterminato a favore del tempo parziale (per il 60% involontario) e a termine. Si rilevano poi le “vulnerabilità” della popolazione lavorativa (durata della prestazione, sua “intensità”: le ore lavorate in settimana, facilità di interruzione), riferite a età, genere, titolo di studio, cittadinanza, ruolo in famiglia, territorio e settore d’attività.

Risulta che il rischio di povertà lavorativa è maggiore in giovani, donne, stranieri, in chi ha un titolo di studio fino alla licenza media, nel Mezzogiorno, terziario e agricoltura. Ed è maggiore nelle coppie con figli minorenni e nei monogenitori (donne). In sintesi: “Nel 2022, il 59,9% degli occupati è classificato come standard (dipendenti a tempo indeterminato e autonomi con dipendenti) e il restante 40,1% si suddivide tra il 19,1% di lavoratori quasi standard (autonomo senza dipendenti, dipendente a tempo indeterminato o autonomo a tempo parziale), il 17,6% di lavoratori vulnerabili (il 10,8% perché dipendenti a termine e il 6,8% perché in part-time involontario) e il 3,5% di lavoratori doppiamente vulnerabili”.

Nel complesso, quasi 5 milioni di occupati (il 21%) sono non-standard, di cui 802mila doppiamente vulnerabili. A conclusioni analoghe era giunto il gruppo di lavoro istituito dal ministro Orlando: tre erano i fattori del lavoro povero, non sempre tra loro intrecciati: livello salariale, durata della prestazione settimanale, continuità nell’anno. L’Istat conferma che una retribuzione a 9 o 10 euro orari ridurrebbe i divari di genere e territorio (c’è più lavoro povero al Sud e tra le donne).

Cosa manca, allora, nel disegno di legge? Si è troppo insistito sulla retribuzione oraria non inferiore a 9 euro, trascurando il nesso tra applicazione cogente della contrattazione collettiva e livello minimo legale, vero salto di qualità del testo. I due temi sono stati contrapposti nel passato: la vera novità è connettere la valorizzazione della contrattazione collettiva con la funzione di tutela di ultima istanza svolta dalla legislazione.

Segnali erano presenti nel testo Catalfo (DDL 658) della scorsa legislatura, che riconosceva alla contrattazione dei soggetti “comparativamente più rappresentativi” la titolarità di stabilire il livello retributivo congruo (articolo 36 Cost.), purché non inferiore a 9 euro orari. Che tale impianto sia diventato proposta dell’intera opposizione è il fatto più importante. Manca la risposta su chi siano i soggetti “comparativamente più rappresentativi”. Il testo Catalfo in caso di “Pluralità di contratti collettivi nazionale applicabili” recitava: “Ai fini del computo comparativo di rappresentatività del contratto collettivo prevalente si applicano (…) per le organizzazioni dei datori di lavoro i criteri del numero di imprese associate in relazione al numero complessivo di imprese associate, e del numero di dipendenti delle imprese medesime in relazione al numero complessivo di lavoratori impiegati nelle stesse”. Si proponevano per la prima volta criteri per la rappresentatività datoriale, essendo consolidati quelli riferiti ai lavoratori. Omettere questo tema è un limite serio, da correggere introducendo criteri selettivi per la definizione della maggiore rappresentatività comparativa dei soggetti stipulanti, altrimenti non cambiamo la situazione.

Ci sono poi obiettivi che il disegno di legge non può conseguire, ma sarebbero necessari se si fa del salario minimo un pezzo della strategia di sostegno al lavoro. La proposta agisce solo sul primo dei fattori della povertà lavorativa (il livello reddituale), non sugli altri, che pure determinano gran parte del lavoro povero.

Bisogna legare la proposta di legge alla lotta alla precarietà da condurre sul piano contrattuale e delle modifiche legislative. Il tema è troppo complesso per riassumerlo qui, ma è essenziale non ridurlo al solo salario, né identificando un solo istituto (art. 18 o contratto a termine) come esaustivo del problema. Indicherei invece la via spagnola, dove la proposta del governo ha costituito la base per un negoziato tripartito con datori di lavoro e sindacati, per giungere ad una riforma sia del versante contrattuale (ripristino della prevalenza del contratto nazionale rispetto all’aziendale), sia alla modifica degli istituti della precarietà (stretta sui contratti a termine ed estensione della possibilità di ricorso al rapporto “fisso-discontinuo” per conciliare stabilità dell’impiego e flessibilità della prestazione), sia alla responsabilità solidale dell’impresa committente e la parità di trattamento lungo la catena delle esternalizzazioni. L’esempio spagnolo può essere utile per affiancare alla campagna sul salario minimo obiettivi più ampi che convincano le persone che “si fa sul serio”.

 

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