I cinquant’anni delle 150 ore. Recuperare il valore di quella conquista - di Silvano Guidi

Tra la fine degli anni ‘60 e i primi ‘70 del Novecento, in Italia si sviluppò una straordinaria stagione di crescita civile, sociale e culturale: la conquista delle leggi sul divorzio e sull’aborto, i movimenti femministi, le mobilitazioni operaie e studentesche che ebbero come risultati più evidenti il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori.

All’interno di questa fase di lotte, nell’aprile del 1973 venne firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici che conteneva, tra gli altri punti, il riconoscimento di permessi retribuiti per i lavoratori studenti. La novità divenne famosa con la denominazione “150 ore”, la quantità massima di ore a disposizione dei lavoratori per frequentare percorsi di studio.

L’innovazione era dirompente. Per la prima volta in Italia veniva riconosciuto il diritto alla formazione/istruzione ai lavoratori e si superava l’antinomia studente-lavoratore, dominante fino ad allora. Lo studio, che era stato appannaggio quasi esclusivo delle classi più elevate, diventava praticabile anche dagli operai, e la possibilità di conseguire un titolo di studio una prospettiva concreta anche per i lavoratori.

Questa conquista dava continuità al percorso iniziato con la riforma della scuola media unificata del 1962, che aveva superato il sistema secondo cui accedevano alla scuola media soltanto quanti avrebbero proseguito gli studi nelle superiori, mentre per tutti gli altri rimaneva il cosiddetto “avviamento” e, al termine, la sola prospettiva di cercare un lavoro. Così circa i due terzi degli occupati nell’industria non aveva nemmeno il diploma di terza media, e una quota minima possedeva un diploma di scuola superiore.

La novità delle 150 ore si diffuse rapidamente: nei primi due anni di applicazione (dall’anno scolastico 1973-74) circa 100mila metalmeccanici ripresero a studiare, e negli anni seguenti i Ccnl di quasi tutte le categorie inserirono il diritto ai permessi per lo studio. Furono coinvolte in seguito anche categorie “non produttive”, quali i disoccupati o le casalinghe.

I processi di apprendimento e le modalità di insegnamento all’interno delle 150 ore si discostarono subito dal modello di scuola tradizionale, troppo classista e astratta, lontana dalle esigenze di chi stava in fabbrica. Furono spesso i sindacati, sotto l’azione dei Consigli di Fabbrica, ad assumere un ruolo determinante nella gestione dei corsi. I temi affrontati partivano spesso dall’analisi delle condizioni lavorative, dal diritto alla salute alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Temi ancora oggi centrali, ma particolarmente importanti in quegli anni in cui in gran parte delle fabbriche si lavorava senza protezione alcuna, anche in presenza di sostanze pericolosissime per la salute quali l’amianto. E solo due anni più tardi si sarebbe verificato il gravissimo rilascio della diossina all’Icmesa di Meda.

A partire dunque dall’affrontare i bisogni più immediati, quali la lettura della busta paga e l’analisi della propria condizione lavorativa, gli operai prendevano coscienza della propria realtà sociale, spesso di immigrati nelle grandi fabbriche del nord, e la trasformarono in coscienza di classe. Si trattò di uno dei più grandi processi di democratizzazione della società: centinaia di migliaia di lavoratori, fino a quegli anni rimasti ai margini della vita sociale, iniziavano a partecipare alla vita politica, chiedevano di migliorare il proprio salario e la propria condizione sociale, e si impegnavano in prima persona nella partecipazione democratica.

In quegli anni nacquero anche i “decreti delegati”, un’ampia riforma che apriva finalmente la scuola alla partecipazione di studenti e genitori, contribuendo a costruire un modello di scuola aperto, inclusivo e democratico, purtroppo sempre più messo in crisi in questi ultimi anni.

Va ricordato il ruolo centrale, in questi processi, delle autonomie locali e, in particolare, delle Regioni che, previste dalla Costituzione, furono finalmente attuate con una legge del maggio 1970 e i cui consigli regionali vennero eletti per la prima volta nel giugno successivo.

A partire dagli anni ‘80, con la chiusura delle grandi fabbriche, le sconfitte sindacali, l’accesso alla scuola superiore di gran parte della popolazione, la spinta determinata dalle 150 ore si esaurì quasi del tutto. Le stesse esperienze di educazione degli adulti oggi in vigore (dapprima i Ctp, centri territoriali permanenti, e successivamente i Cpia, centri provinciali per l’educazione degli adulti) hanno modificato la loro fisionomia, caratterizzandosi prevalentemente per l’insegnamento della lingua italiana agli stranieri o per far conseguire un titolo di studio a chi ne è sprovvisto, ma senza alcun legame diretto con i luoghi della produzione.

 

A distanza di 50 anni, pur in un contesto profondamente mutato, sarebbe utile recuperare il valore democratico di quella esperienza per riscoprirne il significato, e provare ad affrontare le sfide della riconversione produttiva, transizione ecologica, invecchiamento della popolazione con un vasto piano di formazione continua e permanente.

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