Affettività in carcere: una sentenza di civiltà - di Denise Amerini

La sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale dichiara, finalmente, l’illegittimità dell’articolo 18 dell’Ordinamento Penitenziario, laddove esclude i controlli uditivi ma prescrive il controllo visivo dei colloqui con il coniuge: “I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. La Consulta afferma che questo rappresenta “una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”. E questo davvero è: i legami affettivi e familiari sono un parametro su cui modellare il processo di individualizzazione della pena, a prescindere da ogni valutazione premiale, e il diritto all’affettività ed alla sessualità deve essere riconosciuto in sé e per sé, proprio in quanto diritto, la cui negazione confligge pesantemente con il principio costituzionale dell’umanità della pena, con la sua funzione rieducativa.

La pena non deve mai essere afflittiva, non deve negare i bisogni primari delle persone. Privare le persone della possibilità di esprimere i propri affetti, la propria sessualità, è una misura ingiustamente afflittiva, lesiva della dignità, ed alla lunga anche della salute e del benessere psicofisico. Le persone ristrette devono scontare le pene decise dai giudici, nel rispetto delle norme, che consistono esclusivamente nella privazione della libertà.

Il sovraffollamento, l’alto tasso di suicidi e di atti autolesionistici dicono che oggi non è così. Dall’inizio dell’anno sono già (ad oggi, 4 febbraio) quattordici i suicidi in carcere, un dato impressionante, che rischia di passare però sottotraccia. Suicidi che potevano essere almeno in parte prevenuti se alle persone fossero state offerte concrete possibilità e prospettive, anche per quanto riguarda le relazioni con i propri affetti. Ricordiamo, solo per fare un esempio, che oggi sono possibili solo quattro colloqui telefonici al mese, della durata di dieci minuti.

I suicidi ci dicono delle condizioni in cui sono costrette a vivere le persone ristrette: strutture fatiscenti, spazi ridotti, celle dove neanche i tre metri quadri a persona sono garantiti, istituti dove non c’è riscaldamento e d’estate si soffoca per il caldo, dove spesso mancano le docce, manca l’acqua calda ed i cessi sono a vista. Dove non è garantito appieno il diritto alla salute, figurarsi all’affettività ed alla sessualità. Il Consiglio di Europa già nel 1997 chiedeva che il nostro Paese si dotasse di una legge che garantisse la possibilità di usufruire di appositi spazi, sottratti al controllo audiovisivo del personale, all’interno dei quali la persona ristretta potesse trascorrere diverse ore in intimità con i propri affetti.

Le necessità affettive sono inoltre espressione del più ampio diritto alla salute, intesa non solo come assenza di malattie. Negarle significa privare non solo le persone ristrette di un diritto ma anche i loro partner, che si trovano così a scontare pene per reati mai commessi. In più, la Corte prevede il diritto anche per le coppie di fatto e le coppie omogenitoriali, ed anche questo ci sembra un bel segnale, in un ambiente dove le identità di genere non vengono ancora adeguatamente riconosciute e tutelate.

La sentenza arriva poi in un tempo di giustizialismo becero, in cui si usa strumentalmente il termine “certezza della pena” per intendere pene sempre più severe, senza possibilità di alcun beneficio. In cui si invocano ergastoli e pene esemplari. L’auspicio è che serva a far davvero riflettere su cosa è il carcere oggi, sulla necessità di una sua profonda riforma, che parta dal rispetto di tutti i diritti inalienabili delle persone ristrette. Nessuno escluso.

Adesso il diritto all’affettività ed alla sessualità è finalmente esigibile, il Parlamento deve adottare nel più breve tempo possibile una norma al riguardo, nel rispetto di quanto stabilito dalla sentenza della Corte. Già in molti Paesi europei sono previsti spazi dedicati e riservati dove le persone possano trascorrere alcune ore in intimità, questo ci aspettiamo che venga fatto anche in Italia. Lo avevamo richiesto con una iniziativa pubblica un paio di anni fa, lo abbiamo sostenuto in ogni occasione, e lo abbiamo ribadito con l’adesione all’appello lanciato da Società della Ragione pochi mesi fa. Ci impegneremo, con tutte le realtà con cui abbiamo fino ad oggi lavorato per raggiungere questo obiettivo, perché il Parlamento non si sottragga al proprio compito.

È il rispetto della Costituzione che ce lo impone. Sta a pieno titolo nel percorso intrapreso con “La Via Maestra”.

 

 
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