Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta. Alla faccia di lavoratori, agricoltori e cittadini - di Monica Di Sisto

Nemmeno la cornice iper-futuristica di Abou Dhabi è riuscita a restituire al commercio internazionale una direzione condivisa da parte dei diversi capitalismi che si contendono lo scacchiere globale. Una riunione tempestosa, la 13esima ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), prolungata di quasi due giorni pieni alla ricerca di un consenso mai raggiunto, e conclusa con un “ci vediamo nel quartier generale di Ginevra e ne riparliamo”.

Mentre il cambiamento climatico riduce la portata del canale di Panama e il passaggio delle navi-cargo fino al 40% e la guerra in Medio Oriente ne blocca fino al 60%, i dossier più urgenti sono rimasti tutti aperti sui tavoli dei negoziati: dallo stop ai sussidi sulla pesca da parte dei grandi Paesi esportatori, che devasta la biodiversità e schiaccia la pesca territoriale, alla facilitazione dei beni e servizi ambientali; da una soluzione permanente per consentire ai Paesi in via di sviluppo di gestire stock alimentari pubblici per calmierare i prezzi interni, a co-regolare (e tassare) il commercio digitale.

I 164 Paesi della Wto si sono spaccati lungo le faglie della nuova guerra fredda in corso: da un lato gli Stati Uniti, determinati a difendere il proprio mercato interno e il livello attuale di sussidi e di competitività delle sue grandi imprese tecnologiche e digitali, anche continuando a indebolire l’organo di risoluzione delle dispute commerciali globali azzoppato da Trump. Dall’altro la Cina, che pur continuando ad aderire alla Wto sta costruendo un proprio sistema commerciale, con accordi regionali e bilaterali con quasi trenta Paesi, che rappresentano quasi il 40% delle sue esportazioni.

“I paesi ricchi possono giocare al gioco dei sussidi – è stata l’amara costatazione della direttrice generale della Wto, Ngozi Okonjo-Iweala – i paesi più poveri non possono permetterselo”. E infatti Sudafrica e India hanno giocato il ruolo di catalizzatori dello scontento “da sud”: il primo sul tema dei brevetti, il secondo su quello dell’agricoltura. E il banco è saltato.

Chi è mancata al tavolo delle decisioni che contano è stata, come accade da tempo, l’Unione europea: paralizzata tra retorica democratica e pratica liberista, mentre le aziende piccole e medie del settore agroalimentare invadevano di trattori le strade delle nostre città, l'Ue si è affrettata a portare all’approvazione del Parlamento europeo tre nuovi trattati di liberalizzazione commerciale con la Nuova Zelanda, il Cile e il Kenya, che sicuramente non allevieranno la pressione competitiva sulla produzione primaria nazionale e comunitaria.

L’Italia, in questa cornice, ha saputo tuttavia battere tutti i record di scarsa lungimiranza e incoerenza. Il governo considerato più sovranista nella storia della Repubblica sta infatti provando a far ratificare dal Parlamento l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada (Ceta), che proprio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva definito “una porcata contro i bisogni dei popoli”, annunciando che FdI si sarebbe battuto in Italia contro la ratifica. “Chi vota il Ceta – aveva aggiunto Meloni - fa un favore alle grandi produzioni, e sputa in faccia agli italiani che si sono rifiutati di mettere schifezze nei loro prodotti”.

Noi siamo rimasti della stessa opinione, e personalmente, nel corso dell’audizione che ho svolto per la mia associazione presso la commissione Affari esteri della Camera con Movimento Consumatori e Cgil, ho ricordato al presidente, Giulio Tremonti di avergli passato il microfono su un palco di protesta contro la ratifica, avviata a quel tempo dal governo Gentiloni, dal quale lui ci aveva spiegato la sua contrarietà e i motivi per i quali facevamo bene a opporci.

In una condizione di commercio globale in assoluta ritirata, e di fronte a un’esigenza di proteggere la capacità d’acquisto di cittadini e consumatori, alimentare la concorrenza sleale da parte di Paesi che non hanno il nostro sistema regolatorio, e la guerra al ribasso tra grandi imprese che si gioca sui diritti di lavoratori e natura, non può che premere ancora di più sui nostri salari e sulla nostra speranza di futuro. Un gioco al massacro che dobbiamo essere sempre più in grado di leggere e contrastare.

 

 
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