Ilva: una storia anche milanese - di Marco Verga

Riflessioni sulla frammentazione e disillusione della classe operaia.

Ho pensato fosse interessante, per chi avesse letto questo articolo, conoscere più da vicino e con un’ottica tutta diversa (privilegio che abbiamo solo noi nella nostra “Provincia”), quanto sta accadendo ai lavoratori di Acciaierie d’Italia, attraverso le storie vissute nello stabilimento (Centro Servizi) di Paderno Dugnano. Quella dell’Ilva (e qua sono pronto a scommettere che i molti aggiungeranno mentalmente “di Taranto”) è una di quelle storie tutte italiane. Italsider, poi i Riva, adesso Arcelor Mittal (assieme ad Invitalia, cioè lo Stato): la produzione “strategica” dell’acciaio che cala di anno in anno, forni che si fermano, cassa integrazione straordinaria e incidenti quotidiani sul lavoro, la de-carbonizzazione della produzione che non c’è. In poche righe il profilo di queste fabbriche è tracciato.

“Paderno Dugnano, invece ...”: quando parlo col coordinatore nazionale del gruppo inizio sempre così. Perché all’interno del Centro Servizi di Paderno Dugnano si vivono sensazioni in controtendenza. Siamo Acciaierie d’Italia e quindi portatori di tutte le problematiche ma, al contempo, inseriti in una realtà diversa: trentasei lavoratori che occupano un sito di oltre settantamila metri quadri, una produzione con un buon valore aggiunto e un paio di mesi di volumi, stipendi che vengono pagati, onorato il welfare contrattuale, e addirittura siamo arrivati a stabilizzare due ragazzi giovani ed a far fare manutenzione ai mezzi che occorrono a produrre.

Allora? Allora è proprio da qui che tocca riflettere. I lavoratori di Paderno Dugnano non sono preoccupati, hanno, ahimè, introiettato “un combinato disposto” micidiale: vivono alla giornata, non occupandosi dei lavoratori delle altre sedi (le più grandi: Novi, Genova, Taranto), ed hanno come via d’uscita nel caso le cose dovessero andare ancora peggio quattro denari d’incentivo e la ricerca di una nuova occupazione.

Si è rotta, anche dove il lavoro è fatica, attenzione costante, la simbiosi di classe: quella secondo cui se un mio compagno di lavoro sta male, mi faccio carico anche io e mi pongo la domanda di come risolvere il problema. Ecco, questo non è il pensiero ricorrente (lo ha solo il nostro rappresentante sindacale). Quello che viene avanti è un egoismo dettato anche dalla paura, ma non solo (l’avverbio “anche” è fondamentale, altrimenti diverrebbe alibi).

Sono visto (ormai più che percezione è sicurezza) come un “vecchio romantico” che, durante le assemblee, ripercorre gli ultimi atti sindacali consumati all’interno di Palazzo Chigi con i vari ministri, il calo vertiginoso della produzione, un governo sotto schiaffo di una multinazionale franco-indiana, e una fatica in capo al segretario nazionale della Fiom e al coordinatore per la siderurgia di portare avanti un salvataggio dei livelli occupazionali e delle produzioni.

Poi le domande sono esclusivamente dirette ad avere risposte di carattere non collettivo ma personale. Noi facciamo tantissimo, ma quel tantissimo non è sufficiente a rinsaldare le coscienze dei lavoratori. Le assemblee, le chiacchierate a margine, il caffè alla macchinetta, sono tutte cose importanti ma che però “non spostano”.

La fabbrica (o forse potrei spingermi a pluralizzare) non è un pezzo a sé stante della società, si è persa col tempo la centralità del luogo di lavoro, da dove tutto partiva. Anzi, mentre prima il luogo di lavoro influenzava le scelte esterne, oggi viviamo il contrario.

Chiudo con l’ultimo pensiero della mattinata: l’autonomia differenziata. Non è un problema come tanti, per noi è “il” problema: amplificherebbe in maniera irrecuperabile quello che molti di noi vivono quotidianamente nel rapporto con le lavoratrici e i lavoratori.

 

 
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