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La patrimoniale nel “bel paese” non s’ha da fare. Il vento populista dice che le tasse possono solo diminuire. Il paese è dentro la terza recessione in dieci anni, fermo per mancanza di investimenti pubblici e privati, arretra sui sistemi di istruzione, peggiora sul diritto alla salute. Diminuisce la spesa sociale e crescono disoccupazione e precarietà. L’autonomia differenziata aumenterà la forbice tra nord e sud, centro e periferia di un’Italia già devastata dalle speculazioni, da grandi opere inutili come il Tav, da catastrofi “naturali”, con la loro scia di morti e distruzione.

Il successo dei populisti-sovranisti in Italia e in Europa è il prodotto della reazione di quanti hanno pagato la crisi, dei “perdenti della globalizzazione”, delle vittime delle politiche liberiste e di austerity che hanno prodotto precarizzazione, salari fermi, aumento di povertà e diseguaglianze.

Ma il problema è la patrimoniale. La polemica sulla sua necessità, espressa dal nostro segretario generale all’incontro con il segretario del Pd, testimonia la distanza con le nostre proposte. La patrimoniale non è né una novità né un’invenzione “personale”, come si è insinuato, ma è nel documento approvato dal Congresso Cgil. 

Il neo segretario Pd è corso a rassicurare mercati e borghesia, ma la presa di distanza sua, dei renziani, di Calenda, è sintomatica di un partito che continua a ragionare con la testa rivolta a destra, rivendicando masochisticamente scelte fallimentari, incapace ancora di girare pagina per sanare la rottura sociale con i ceti popolari e il mondo del lavoro.

Avremmo bisogno di immense risorse per rilanciare il paese, e la riforma radicale del fisco è ineludibile per recuperare la ricchezza nascosta, evasa, là dove si è accumulata in misura indecente, per ridistribuirla. La patrimoniale non è un’espropriazione ma una scelta di equità, nel rispetto della Costituzione. Senza risorse non ci sono investimenti pubblici, sviluppo ecosostenibile, lo Stato in economia, non si superano povertà e diseguaglianze, non si crea lavoro e non si ferma la recessione, non si difendono i diritti sociali e universali.

La Cgil scrive nel suo documento: “Occorre superare la diseguaglianza fiscale con … una riforma organica del fisco che si basi sui principi costituzionali della progressività e giustizia fiscale, rigettando ipotesi di flat tax. I pilastri per noi sono: diminuzione delle imposte sul lavoro, tassazione del patrimonio e abbassamento della soglia per l’imposta di successione, lotta all’evasione fiscale…”.

La sinistra ritrovi in fretta le ragioni della sua esistenza e si misuri con ciò che hanno espresso i giovani, le donne, il mondo del lavoro nelle grandi piazze di Roma, Milano e Verona. La Cgil ha deciso dove e con chi stare.

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Il mondo salvato dai ragazzini. Come Simone, il quindicenne novello Bartleby che, guardando negli occhi i militanti di Casa Pound arrivati a via dei Codirossoni a Torre Maura, per alimentare la protesta di alcune decine di abitanti del quartiere contro il trasferimento di una settantina di rom nel centro di accoglienza sotto casa, ha detto ai suoi concittadini: “Io non sono d’accordo con voi”.

Se anche non è scesa la tensione nel quartiere romano nonostante che i rom abbiano lasciato il centro di accoglienza, il flop della fiaccolata di Forza Nuova (20 persone presenti), e la discesa in piazza di Anpi, Cgil, Libera e Arci, che hanno organizzato una manifestazione con lo slogan “Non me sta bene che no” (una delle frasi di Simone), sono due buona notizie. Grazie al ‘manifesto’ si scopre poi che anche altri ed altre adolescenti, in una normale giornata di scuola in un istituto superiore di Torre Maura, scrivendo un tema sulla vicenda, sanno essere consapevoli di cosa è accaduto e di perché è accaduto: “Posso capire i motivi della protesta – scrive ad esempio Massimo – Torre Maura è un quartiere emarginato, con grandi problemi, però prendersela con i rom è sbagliato perché loro non c’entrano nulla con questi problemi. 

La vera colpa è dell’amministrazione, che lascia le periferie nel degrado più totale. Ma si è visto che la colpa la si dà sempre alle minoranze”.

Anche l’atto di calpestare il pane destinato ai rom, ripreso dalle telecamere e rimbalzato sui social, ha impressionato molto i ragazzi e la ragazze. “Calpestare il pane significa calpestare l’umanità - scrive Giorgia - il pane è di tutti, e tu, in quanto persona, non puoi calpestare il pane di altre persone, è un gesto imperdonabile”. E ancora Massimo: “Non è un atto di protesta, ma di disprezzo e di razzismo verso i rom. Ma una società che ha queste idee non potrà mai migliorare, finché non si aprirà agli altri”. 

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Una festosa marea di donne e uomini ha manifestato il 30 marzo per i diritti di tutte e di tutti, contro la destra oscurantista e fascista che vuole rimettere in discussione le conquiste civili e il valore delle differenze.    

Sabato 30 marzo c’è stato a Verona un corteo di protesta organizzato da “Non una di meno”, a cui hanno preso parte parecchie associazioni, movimenti e sindacati, contro il Congresso mondiale delle famiglie, programmato da forze di destra per definire l’agenda politica dei governi più reazionari del mondo, con la partecipazione di alcuni ministri del governo italiano, per “celebrare e difendere la famiglia naturale come l’unica unità fondamentale della società”.

Mentre nel palazzo della Gran Guardia, davanti alla storica Arena, nel cuore della città di Romeo e Giulietta, veniva inaugurato il Congresso delle famiglie, nella sala di un’associazione di Veronetta, il quartiere universitario della città, si svolgeva la conferenza stampa di presentazione della “Verona transfemminista”, la contromanifestazione culminata nel grande corteo per le vie della città a cui hanno aderito organizzazioni femministe di tutto il mondo, insieme a partiti e sindacati.

La Cgil ha partecipato alla mobilitazione portando in piazza centinaia di militanti. A guidare il numeroso gruppo c’erano Maurizio Landini, Susanna Camusso, titolare delle Politiche di genere, la vicesegretaria Gianna Fracassi e la segreteria confederale. Ragazze e ragazzi, donne e uomini, pensionate e pensionati, arrivati con decine di pullman e treni da tutta Italia, si sono messi in cammino da piazza XXV Aprile per gridare il loro “No” a un’idea di famiglia e di società di stampo medioevale.

“La famiglia è una comunità di affetti”, “Il corpo è mio e ci faccio quello che voglio”, “Famiglie è dove c’è amore”, sono solo alcuni degli slogan scritti, cantati e urlati dalle migliaia di manifestanti (30mila persone per la questura, oltre 50mila per le organizzatrici). Il corteo di protesta è partito con un comprensibile ritardo, ha percorso quattro chilometri blindati fino a Porta Vescovo, e si è svolto in modo tranquillo e festoso, senza alcun minimo atto di violenza.

Da anni Verona è un laboratorio per le politiche antiabortiste e contro l’uguaglianza di genere, in città si registra una saldatura abbastanza esplicita tra gli ambienti del tradizionalismo cattolico, quelli dell’estrema destra e quelli della destra istituzionale, rappresentata in questo momento dalla Lega. Nelle ultime settimane è tornata alle cronache dei giornali di tutto il mondo per il Congresso delle famiglie, che per la prima volta si è svolto in uno dei paesi fondatori dell’Unione europea, con un ampio appoggio istituzionale da parte delle più alte cariche dello stato, tra cui il ministro dell’interno Matteo Salvini e il ministro della famiglia Lorenzo Fontana, anche lui originario di Verona.

Maurizio Landini, a margine della manifestazione, ha definito il corteo di Verona una “battaglia di libertà: la libertà delle persone è decisiva, la libertà delle donne, i diritti fondamentali”. “Oggi chi ha organizzato il Congresso ha un’idea regressiva della società, autoritaria e pericolosa. Le persone per essere felici devono essere libere, devono potersi voler bene senza alcun problema, in più è molto importante difendere i diritti che sono stati conquistati e che hanno reso più libere le persone, a partire dalle donne, non bisogna avere paura delle diversità e delle differenze. Riconoscere la differenza è un modo per difendere la democrazia”.

Susanna Camusso ha partecipato convintamente alla manifestazione perché “è in corso un’offensiva di forze reazionarie che praticano una visione autoritaria e repressiva della famiglia e della società”. “La partecipazione del governo è gravissima – ha sottolineato Camusso - la libertà delle donne è il metro di misura della democrazia: se si attaccano le donne, si mette in discussione tutto l’impianto democratico di uno Stato”. “Tutto ciò che abbiamo contestato nell’ultimo periodo, dal ddl Pillon alle operazioni di Salvini sui migranti, riguarda la questione complessiva delle libertà, e contrastando il congresso della famiglia, unitamente alle politiche del governo, si rimettono insieme realtà diverse tra loro”. E ancora: “Verona è un segnale di risveglio, ma anche di resistenza: c’è una parte del paese che non si rassegna ad avere uno Stato autoritario”.

Tutt* noi dobbiamo continuare a vigilare e fare rete, respingendo con forza qualsiasi tentativo di sgretolare diritti faticosamente conquistati dalle generazioni precedenti, a partire dall’autodeterminazione delle donne. Non staremo a guardare!

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La Cassazione, come sostenuto da Nidil, smentisce l’Inps e riconosce il diritto all’assegno al nucleo familiare anche nei periodi di disponibilità.  

Lo scorso 8 marzo, dopo un lungo contenzioso legale con l’Inps, la corte di Cassazione sezione lavoro ha sancito il sacrosanto diritto per i lavoratori in somministrazione, assunti a tempo indeterminato, di percepire l’assegno al nucleo familiare anche nei periodi cosiddetti di disponibilità. Non è la prima volta che in questo paese l’affermazione dei diritti sociali e del lavoro debba passare attraverso la via giudiziaria, con l’incognita però dei tempi della giustizia italiana, che spesso mal si conciliano con le esigenze di certezza dei propri diritti, e più in generale di appagamento del senso di giustizia delle persone.

Nella vicenda in commento sono occorsi più di dieci anni prima di arrivare ad una sentenza definitiva che, seppur ci lasci enormemente soddisfatti nel suo esito individuale, ci impone allo stesso tempo di continuare nella nostra quotidiana battaglia nell’affermazione dei diritti dei lavoratori, a prescindere dalla forma contrattuale che assume il proprio rapporto di lavoro.

Per una maggiore comprensione della vicenda è opportuno precisare, in via preliminare, che il lavoro in somministrazione è quel rapporto regolato dalla legge e dalla contrattazione collettiva in cui un lavoratore, assunto formalmente da un’agenzia per il lavoro, viene poi inviato in missione presso un’impresa utilizzatrice per lo svolgimento della propria attività lavorativa.

Le agenzie per il lavoro possono assumere i lavoratori sia con contratti di lavoro a tempo determinato che indeterminato. In questa seconda ipotesi, il lavoratore è potenzialmente destinatario di più missioni di lavoro presso diverse imprese utilizzatrici, e nei periodi in cui il lavoratore non è in missione è comunque a disposizione dell’agenzia, percependo in tal senso un’indennità di disponibilità pari ad 800 euro mensili.

Durante la missione e lo svolgimento dell’attività lavorativa viene normalmente corrisposto l’assegno al nucleo familiare, al contrario il contenzioso con l’Inps nasce proprio in relazione ai periodi di disponibilità. E’ da questo presupposto che un lavoratore somministrato assistito dal Nidil di Bergamo e dall’ufficio vertenze ha dato inizio all’intera vicenda giudiziaria.

L’Istituto di previdenza, nei vari gradi di giudizio, attraverso un’interpretazione restrittiva della normativa, ha sempre negato la sussistenza del diritto all’assegno nei periodi di disponibilità, ritenendo che l’indennità percepita dai lavoratori non avesse natura retributiva, e di conseguenza non fosse applicabile la disciplina dell’assegno al nucleo familiare.

La Cassazione invece ha riconosciuto il diritto all’assegno, sostenendo che il rapporto giuridico fra l’agenzia per il lavoro e il lavoratore si realizza anche nei periodi di disponibilità, confermando quindi la natura retributiva dell’indennità di disponibilità, peraltro già gravata da contribuzione previdenziale piena. A supporto dei propri convincimenti i giudici hanno legittimamente richiamato, in analogia, ciò che succede già per i lavoratori marittimi in regime di continuità, che al contrario dei somministrati hanno accesso all’Anf nei periodi retribuiti di “riposo a terra”.

La decisione della Cassazione è il frutto del lungo e complesso lavoro di Nidil in questi anni, in cui, di fronte all’indifferenza dell’Inps rispetto alle nostre ragioni a sostegno dei diritti dei lavoratori in coerenza con quanto previsto dalla legge, l’ultima opzione possibile è stata quella della via giudiziaria, attraverso la quale siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo.

E’ necessario adesso aprire un confronto sia con il ministero del lavoro che con l’Inps, affinché possa essere riformata l’interpretazione restrittiva che in questi anni ha negato il diritto all’Anf, estendendo così il principio fissato nel caso concreto dai giudici di Cassazione a tutti i somministrati che si trovano nella stessa condizione. In caso contrario continueremo a percorrere la strada del contenzioso legale, per garantire a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori in somministrazione la piena tutela dei propri diritti.

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