Mimmo Lucano assolto. L’accoglienza non è reato - di Leopoldo Tartaglia

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L’11 ottobre scorso, i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, dopo una camera di consiglio di sette ore, hanno condannato Mimmo Lucano ad un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della Procura generale di dieci anni e cinque mesi. Crollano così quasi tutte le accuse contestate all’ex sindaco di Riace, ribaltando la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che gli aveva inflitto 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. Assolti altri 16 imputati, collaboratori di Lucano.

Dalla lettura del dispositivo emerge che la Corte ha condannato Lucano solo per il reato di falso in atto pubblico in relazione ad una delibera del 2017 relativa all’assegnazione di fondi pubblici alle cooperative, mentre sono state prescritte altre due accuse tra le quali l’abuso d’ufficio per l’affidamento del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti nel Comune di Riace a due cooperative sociali prive dei requisiti richiesti dalla legge.

Il resto cade. Soprattutto l’accusa – frutto di una vera persecuzione politico-giudiziaria - di essere il promotore di un’associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita dei fondi destinati ai progetti Sprar e Cas.

La decisione smonta le accuse contenute nei durissimi rapporti della Prefettura di Reggio Calabria e ripresi nell’inchiesta “Xenia” della procura di Locri che, nel 2018, aveva portato Lucano agli arresti domiciliari. L’inchiesta della procura di Locri e la sentenza di primo grado avevano incriminato – sotto pressione della campagna politico-mediatica dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini - un modello di accoglienza diventato famoso nel mondo e iniziato nel 1998, quando “Mimmo u’ curdu”, come era stato soprannominato Lucano, accolse alcuni curdi sbarcati a Riace.

Alla soddisfazione per la fine della persecuzione nei confronti di Lucano – dopo questi anni di sofferenza, con mesi di ingiusta carcerazione – resta la rabbia e l’amarezza non solo per il trattamento che ha subito, ma anche per la distruzione della esemplare esperienza di accoglienza e solidarietà di Riace. Del “modello Riace”, infatti, oggi non rimane nulla o poco più.

Il Comune, a guida leghista dopo la caduta di Lucano, non ha più confermato quel sistema. Il nome di Riace però continua ad attrarre. Arrivano ancora immigrati, lo stesso Lucano aiuta a trovare case, ma è accoglienza improvvisata e non ci sono né lavoro né fondi per le attività. Proprio per questo hanno chiuso quasi tutte le botteghe e i laboratori di artigianato. Molti i debiti ancora da pagare e nel paese non si vede più il turismo solidale di allora.

Fortunatamente, il seme ha dato i suoi frutti altrove, e nella Locride non sono pochi i comuni che continuano ad ospitare gli immigrati, ormai realtà consolidate, come a Camini, paese confinante con Riace. O come a Roccella Jonica, anche questo confinante, Comune record per sbarchi dalla rotta turca, e dove si accoglie senza tensione. O ancora a Gioiosa Jonica, Benestare, Caulonia, Ardore, Siderno. Buona accoglienza, silenziosa e poco conosciuta.

In ogni caso la sostanziale assoluzione di Lucano e della sua giunta può rappresentare una svolta nella battaglia culturale e politica contro la criminalizzazione della solidarietà. La pesante condanna in primo grado, persino superiore alle richieste della pubblica accusa, si conferma abnorme e immotivata, viziata da teoremi pregiudiziali come l’associazionismo democratico e solidale ha sempre denunciato. Già il fatto che magistratura e forze dell’ordine avessero dedicato una quantità ingente di tempo e risorse a indagare sull’accoglienza dei rifugiati, distogliendole dalla lotta alla ndrangheta, aveva qualcosa di surreale.

La vicenda Lucano, del resto, fa parte di una serie di casi giudiziari in cui i protagonisti di iniziative di accoglienza verso profughi e migranti sono stati colpiti, dopo violente campagne politiche e mediatiche, da indagini e accuse che li hanno costretti a difendersi e non di rado a sospendere la loro attività. Basti ricordare Carola Rackete e le molte ong finite inchiesta o sotto processo, con le navi ispezionate e sequestrate, ma mai condannate; padre Mussie Zerai, processato perché impegnato ad aiutare i profughi eritrei suoi connazionali; gli attivisti di Baobab a Roma; i coniugi triestini Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, che con la loro associazione Linea d’Ombra assistono i migranti giunti tra mille stenti e difficoltà a Trieste sulla rotta balcanica.

 

Queste ripetute inchieste giudiziarie, quasi sempre destinate al fallimento, sono uno dei frutti più tossici di quel clima culturale – promosso con tutta evidenza dalla destra, ma a volte accarezzato anche da esponenti del centrosinistra – di criminalizzazione dell’immigrazione, della solidarietà e dell’accoglienza, in nome di una malintesa sovranità nazionale e come ricerca del capro espiatorio cui imputare i mali, ormai cronici, del nostro paese.

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