La fuga di Stellantis da Torino accelera il declino della città - di Marco Prina

L’annuncio fatto dall’ad di Stellantis all’inizio di febbraio di sei settimane di cassa integrazione, unita alle minacce di abbandonare Mirafiori, Torino e l'intero Belpaese in mancanza di incentivi governativi per drogare un mercato che non decolla neanche in Francia e Germania, è stata una doccia fredda per tanti. A partire dalla grande comunità operaia di 11mila dipendenti di Mirafiori, che ha reagito duramente con scioperi che hanno svuotato lo stabilimento per riversare tutti davanti ai cancelli, come ai bei vecchi tempi. In gioco, per ora, abbiamo 2.260 dipendenti in cassa a rotazione delle Carrozzerie impegnati sulle linee della 500 e della Maserati: due prodotti sui quali sussistono problemi di vendita per difetti di qualità e per mancanza di investimenti e progettazione.

Il ricatto di Tavares è pesante perché non solo sequestra il più grande e storico stabilimento d’Europa, ma i suoi effetti ricadono sinistramente sull’indotto auto del paese, producendo i primi segnali di cassa fra i vari fornitori di servizi informatici che iniziano a fibrillare in vista di nuovi e importanti esodi produttivi in Francia.

Questa nuova crisi di Mirafiori esaspera le difficoltà di rilancio dell’economia torinese determinate da storiche insufficienze di diversificazione produttiva, da un forte avanzamento di un inverno demografico da record, dalla scarsità di investimenti privati di innovazione e sviluppo in un territorio produttivo di alte professionalità (Politecnico).

A Torino mancano idee e se queste ci sono si sposano difficilmente con le classi imprenditoriale e politica conservatrici, alle quali si contrappone un ceto sindacale abituato a riprodurre schemi del passato e in difficoltà a individuare un futuro. I tentativi di gestire la trasformazione/transizione economica dell’ex industria dell’auto da parte di questa classe politica locale in alleanza con quella economica sono stati fallimentari, dalle Olimpiadi invernali in poi.

Malgrado loro, in trent’anni il sistema produttivo si è trasformato: oggi abbiamo il 70% del valore aggiunto e dell’occupazione provenire dal terziario, rovesciando il rapporto del fatidico 1971, quando il 60% del Pil e del lavoro veniva dalla manifattura. Col 2023 mentre i dipendenti nella manifattura nel torinese sono scesi a 216mila, quelli del terziario sono saliti a 641mila. Di questi 113mila sono del commercio, 118mila sono dipendenti pubblici, 36mila del Terzo settore (di cui 20mila delle cooperative sociali), 53mila del sistema produttivo culturale.

L’industria turistica è quella che registra le maggiori crescite: nel 2022 con un aumento delle presenze del 61% ma con medie di permanenza fra le più basse del nord-ovest (3,6 giorni). Il terziario è quello che assume di più (80% delle assunzioni) - prendendo più giovani under trenta (83%) - inseguito dall’industria con un modesto 14% delle nuove assunzioni. Ma il terziario non è così avanzato, detenendo il record dei precari (80% dei nuovi assunti) contro il 62,5% delle costruzioni e il 53% dell’industria.

I nuovi settori che emergono nel torinese sono quelli più ricchi di precari, giovani, donne, immigrati e lavoratori poveri, a differenza della vecchia manifattura che nell’essere più garantita spesso è meno giovane e più sindacalizzata.

Il rischio di fuga di Tavares, già in parte annunciato dai mancati investimenti, è il classico colpo finale su uno scenario di desertificazione industriale, declino economico nel quale brilla la mancanza di lungimiranza e programmazione da parte di una classe politica locale da sempre subalterna alle scelte dei poteri forti del territorio (Unione Industriale, Fondazione San Paolo da sempre maggiore azionista del welfare locale, Politecnico, Leonardo, Stellantis), e dunque prona a una tacita cogestione dell’omeopatico abbandono della presenza produttiva di Fiat.

Con il tragico ricatto su Mirafiori siamo all’atto finale di una storia di oltre cento anni, oltre la quale non si è mai voluto scorgere un’alternativa. I tentativi locali della Cgil, insieme a Cisl e Uil, di aprire una vertenza sul futuro di Torino sono finiti nel nulla. Anche per una certa difficoltà di volontà e proposta, non andando la piattaforma unitaria oltre le classiche richieste occupazionali.

È mancato un sano confronto, anche aspro, fra parti avverse, sul futuro. Prima di tutto per una scarsa disponibilità di Confindustria, supportata dal gioco degli enti locali. Non c’è stato neppure sul Pnrr, salvo su qualche aspetto come la sanità, che da sempre muove voti. È stato promesso nella campagna per le amministrative dal nuovo sindaco Lo Russo, che poi è scomparso dai radar.

La Cgil Piemonte ha tentato un rilancio, di recente, su un’idea di aprire su regione e area metropolitana torinese un confronto serio sulla nuova mobilità sostenibile del futuro. Ma per adesso è rimasto solo un bel grido nel deserto.

 

 
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