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Care compagne, cari compagni, grazie per la vostra vicinanza e solidarietà. Scrivo dalla quarantena in una casa che un caro compagno ha messo generosamente a disposizione, dopo dieci giorni di ricovero all’ospedale San Raffaele per una polmonite da Covid e con il tampone ancora positivo, in attesa della negatività che mi permetterà di riprendere la mia esistenza e l’attività sindacale. Sono stato travolto da un’onda che ti trascina in una dimensione di fragilità che mai avresti pensato di vivere. Ero in buona salute e adottavo tutte le misure di precauzione, ma il virus vigliacco trova altre strade e si è infilato nelle mie vie respiratorie.
Sono stato fortunato, ne sono uscito sembra senza gravi danni, a differenza di chi ne porterà i segni o non ce l’ha fatta.
Sono della generazione de “il personale è politico”, dunque ho scelto di scrivere questo articolo partendo dalla condivisione della mia esperienza, per provare a riportare la dimensione individuale dentro quella collettiva.
Ho visto la paura di non farcela di tanti, la “fame d’aria”, la disperazione di chi piombava in una condizione inaspettata. Una prova dura, un’esperienza umana che ti segna, una dimensione inesplorata del tuo essere persona. Si impara e si riflette. È capitato a me come a centinaia di migliaia di persone. Una sera la febbre, e la percezione che il virus si fosse impadronito del mio corpo; speravo di non dover ricorrere all’ospedalizzazione. Non è stato così. Dopo cinque giorni la febbre non scendeva, ho perso l’olfatto, la saturazione del sangue era insufficiente.
Su indicazione del medico, ho chiamato il 112 per farmi portare al pronto soccorso. Lo stesso operatore del 112 ha consigliato di farmi portare in auto, l’attesa era troppo lunga. A mia moglie è stato consentito di accompagnarmi fino allo spazio antistante il pronto soccorso, poi mi sono ritrovato solo nel triage. Orario di entrata: 14,15.
Dopo mezz’ora la misurazione dei parametri, poi l’attesa su una sedia di ferro per oltre tre ore nello spazio delle ambulanze, essendo la sala d’attesa piena di pazienti Covid. Lì ho saputo dello sproloquio televisivo del “famoso” medico di Berlusconi, che ha irritato anche i medici e gli infermieri sostenendo che dal suo ufficio sopra quel pronto soccorso non vedeva la fila delle ambulanze, che non c’era nessuna emergenza. Dentro un’altra realtà, la sala d’attesa piena con barelle nel corridoio, operatori sanitari in estrema difficoltà.
Mi hanno messo sulla barella e portato in corridoio nella sala d’attesa verso le 18. La diagnosi, arrivata dopo altre due ore, è stata di saturazione bassa e criticità polmonare da Covid. Portato in una stanzetta con altri pazienti, verso le quattro del mattino mi è stata fatta la radiografia portatile. Un’ora dopo ero nel salone allestito a parcheggio, dove sono stato per quattro giorni su una barella insieme ad altri 35 pazienti. Finalmente alle 8 di mattina un bicchiere di tè caldo e due fette biscottate. In quei giorni, ad assistere pazienti anche gravi e con sofferenze che mai dimenticherò, solo due medici e quattro infermieri.
Per dieci giorni, gli ultimi per fortuna in una camera confortevole, sono stato curato con competenza e umanità da tutto il personale ospedaliero che ogni quattro ore, giorno e notte, monitorava le tue condizioni e garantiva le cure; donne e uomini dei vari servizi che cambiano le lenzuola, puliscono e sanificano l’ambiente, portano i pasti.
Passano i giorni in attesa di una notizia buona, di una dimissione che non arriva mai, con la speranza che il Covid non ti lasci in futuro tracce e conseguenze. E’ un’esperienza che vorrei trasmettere per ricavarne una riflessione politica e sindacale. Lì misuri la distanza tra la realtà e le parole. Senti quanta ragione abbiano quei medici che denunciano il collasso dei pronto soccorso, che pongono interrogativi sulla prevenzione, sui tagli dei posti letto e del personale, con il terrore di essere costretti a decidere chi curare e chi lasciar andare.
Da paziente vedi donne e uomini, invisibili fuori ma fonte essenziale di vita per te, che mettono in pericolo sé stessi e i loro cari, e si ammalano in tanti di Covid. Hanno paura. Odiano essere chiamati eroi da chi poi nega i loro diritti, un contratto, condizioni di lavoro dignitose, mettendoli sotto accusa se fanno uno sciopero per sé e per una sanità diversa. Fanno al meglio il loro dovere in condizioni di lavoro disastrose, con turni massacranti di dodici ore, mangiando in dieci minuti, imbacuccati nelle tute bianche. Ci mettono passione, umanità, solidarietà, disponibilità, professionalità e sacrificio.
Da paziente ho usufruito con gratitudine della loro disponibilità e professionalità, come sindacalista mi sono sentito inadeguato, e ho provato un senso di responsabilità verso ogni lavoratrice e lavoratore che opera nel comparto sanità, pubblico e privato. Sono loro a garantirci il primario diritto alla salute sancito dalla Costituzione. A loro dobbiamo garantire vicinanza e sostegno verso le loro rivendicazioni, e il loro diritto di scioperare senza essere criminalizzati.
Provo rabbia e intolleranza verso chi, prima di garantire l’ossigeno ai malati, pensa a darne all’economia, verso gli ipocriti, i qualunquisti e gli affaristi. E verso i politici spregiudicati di destra ma anche verso quelli di sinistra che, dopo essere stati corresponsabili per anni di scelte che hanno mortificato il Sistema sanitario pubblico, e la scuola e chi ci lavora, rimuovono le loro responsabilità.
Le priorità sono la salute pubblica e la vita delle persone. La prima misura che potrà salvarci anche economicamente è fermare il virus, ed evitare una nuova ondata che avrebbe un prezzo altissimo in termini di vite umane, ed economici.
Quanti errori fatti in nome del mercato e del profitto, delle politiche di austerità e dei vincoli finanziari, in favore del privato e a scapito del welfare, dell’istruzione e della scuola, del nostro Sistema sanitario nazionale. Quanto nefasta quella riforma del titolo V, voluta dal centrosinistra, che ha spostato poteri e funzioni in materia di sanità. Quanta arroganza e incapacità da parte di certi presidenti di Regione, di destra ma non solo.
La regione Lombardia, come e più di altre, ha miseramente fallito. Il Sistema sanitario pubblico è stato mortificato in favore del privato, il diritto alla salute è stato subordinato al reddito individuale delle persone. Chi ha sbagliato paghi prima di fare altri danni, e se ne vada.
I medici di famiglia, malpagati e poco valorizzati, sono stati ridotti nei numeri e lasciati soli, senza il sostegno della medicina territoriale. Il “sistema” Formigoni (condannato), e della sua giunta di centrodestra e leghista, la posizione di Confindustria e Assolombarda rispetto al ritardo nelle chiusure delle attività produttive non necessarie, sono tra le cause dell’ecatombe di primavera nelle Rsa e tra la popolazione. Qualcuno dovrà pur pagare il conto, sul piano giudiziario e politico, per l’incapacità e le nefandezze compiute sulla pelle delle persone.
C’è bisogno di un cambiamento radicale, di progetti e politiche sociali ed economiche alternative che abbiano al centro il lavoro e la partecipazione dei lavoratori e dei pensionati, dei giovani e delle donne, con i necessari rapporti di forza e le lotte di sostegno. Occorre recuperare risorse dall’evasione, tassare le grandi ricchezze, investire in ricerca, istruzione, sanità pubblica, superamento delle disuguaglianze.
E’ urgente definire pochi ma strutturali progetti di prospettiva strategica, che non arrivano ancora né dal governo né dalla sinistra di governo, su cui indirizzare le risorse disponibili - non certo quelle del Mes - garantendo aiuti a chi perde o sospende realmente la propria attività per la pandemia. Nessun patto consociativo e di potere regge alla prova dei fatti; ogni tentativo, senza un disegno e un progetto politico alto, è destinato a frantumarsi contro la dura realtà sociale.
La politica e i politici - in particolare della sinistra di governo, ché la destra fa la destra - negli ultimi vent’anni sono stati colpevoli di scelte sbagliate, che hanno messo in discussione la tenuta del Paese. Si sono alimentate divisioni tra nord e sud della penisola, ci si è piegati all’autonomia richiesta dalle regioni ricche del nord, mortificando lo stato sociale, la sanità e la scuola pubblica con pesanti tagli.
La nefasta riforma del titolo V, l’attacco del governo Renzi ai diritti del lavoro, all’articolo 18, al sindacato, sono responsabilità gravi. Come l’aver privilegiato il rapporto con l’impresa e messo al centro il mercato e il profitto, l’aver fatto proprio il pensiero unico neoliberista, le privatizzazioni selvagge, la svendita del patrimonio pubblico. Ho trovato la lettera del segretario del Pd a Repubblica il 23 novembre priva di proposte e di contenuti, molto politicista, e un po’ ipocrita per le tante rimozioni.
La Cgil è stata ed è in campo con la sua autonomia, le sue proposte strategiche, il suo Piano del lavoro e la sua Carta dei diritti. Questa terribile pandemia ha accelerato tutto. Ci obbliga a ripensare il nostro sistema di sviluppo e di vita, a fare i conti con le tante follie compiute verso il pianeta e le persone, in nome del mercato e del profitto. L’alternativa però occorre pensarla, proporla e realizzarla. E il necessario cambiamento radicale deve avvenire conservando i propri valori e le storiche radici del movimento operaio e della sinistra politica e sociale. Il senso della collettività, del bene pubblico, dell’eguaglianza nei diritti, sono il faro nel mare burrascoso della crisi sanitaria, sociale ed economica più grave del dopoguerra.
Per me, per noi, le radici a cui siamo aggrappati, il grande valore di riferimento, è da sempre la militanza nel nostro sindacato: la Cgil.
Lo facciamo chiedendo di rinnovare il nostro contratto. Cos’altro dovremmo fare?
Abbiamo fatto funzionare le amministrazioni pubbliche anche quando i governi hanno tagliato risorse e privatizzato i servizi ai cittadini. E ora, anche chi di noi è in smart working e con propri mezzi, siamo sempre a disposizione dei cittadini e delle imprese, in sanità, nei servizi educativi, nell’assistenza ai cittadini. Garantiamo la loro sicurezza, ci stiamo prendendo cura del Paese rischiando in prima persona.
Però è in atto una campagna tesa a fare del pubblico impiego il capro espiatorio delle difficoltà economiche cui la nazione è andata e sta andando incontro. “I lavoratori pubblici sono sul divano e percepiscono lo stipendio”. Poi invece, se il sindacato dichiara lo sciopero, allora si dice che vuole “bloccare l’Italia e mettere a rischio la già fragile tenuta sociale”.
Nonostante sia stato proprio il settore pubblico a reggere il nostro Paese nella prima fase pandemica, si ritorna a fomentare lo scontro tra lavoratori, anziché puntare il dito contro quelle categorie sociali ed economiche che realmente detengono i privilegi in Italia.
I pubblici hanno da sempre dovuto scontare un peccato originale, quello di essere un po’ più garantiti degli altri lavoratori. Ma non è togliendo diritti a chi ce li ha che si garantiscono a chi invece non ce li ha. Non è che, se non si riconoscono gli aumenti salariali ai dipendenti pubblici, quei soldi vengono dati ai lavoratori privati. È proprio il contrario, la storia ce lo insegna. Se lo Stato non garantisce i contratti ai propri lavoratori, come fa a chiedere a Confindustria di farlo? Lavoratori pubblici e lavoratori privati devono essere uniti, per rivendicare il diritto al contratto.
Vogliamo una Pubblica amministrazione efficiente, che risponda sempre di più alle esigenze dei cittadini e delle imprese. Ma nei prossimi due anni usciranno 500mila persone. È urgente una grande campagna di assunzioni nei servizi pubblici, per continuare a garantire i diritti di cittadinanza. La mancanza di personale in sanità è sotto gli occhi di tutti. Ma anche nei comuni, e negli uffici territoriali di tanti ministeri, che entro pochi anni chiuderanno per mancanza di personale, la media di età è di 58-59 anni.
Non è possibile che si continui ad assumere personale precario, sono migliaia nella Pubblica amministrazione. Il cosiddetto personale “Covid” in sanità è quasi tutto precario. E poi c’è la sicurezza, mancano i guanti in tanti ospedali, e le mascherine Fpp2 nei servizi educativi. Applicare i protocolli di sicurezza negli enti pubblici spesso è veramente difficile, i lavoratori non si sentono per niente garantiti. In alcuni tribunali – proprio dove si dovrebbe garantire il rispetto della legge - mancano anche i presidi minimi, mancano i controlli degli accessi.
Ma c’è anche un problema di salario. Sono quindici anni che il salario di noi pubblici perde potere di acquisto, abbiamo patito blocco salariale e precarizzazione selvaggia attraverso violente esternalizzazioni, mentre tutti subivano il blocco del turnover con meno servizi e meno diritti. Si tagliavano le risorse alla sanità e a tutta la Pubblica amministrazione, e nel contempo non si rinnovavano i contratti: un attacco ai lavoratori che è andato sempre più intensificandosi.
Le risorse presenti oggi nella legge di bilancio non garantiscono neanche in media 30 euro lordi di aumento salariale. I 107 euro di cui parla la stampa forse sono gli aumenti per i magistrati e per i medici, non per un infermiere o per un lavoratore di un comune.
Vogliamo riorganizzare la Pubblica amministrazione; siamo stufi di fare da capro espiatorio per le inefficienze. Bisogna investire nella digitalizzazione e nella sicurezza. Per quanto tempo ancora possiamo chiedere a medici, infermieri, tecnici di laboratorio di saltare riposi e raddoppiare i turni, per garantire il diritto alla salute?
Assunzioni, lotta al precariato, sicurezza e rinnovi contrattuali: per questo io sciopererò: lo farò per “i diritti, per il mio sindacato, per il lavoro e per la libertà”, e vorrei farlo, insieme a tutte le altre lavoratrici e agli altri lavoratori, per un’amministrazione pubblica che difenda i diritti dei più deboli, che se ne prenda cura, e che lo faccia essendo presidio di legalità.
Finalmente a novembre si è arrivati alla sottoscrizione del rinnovo del contratto nazionale delle telecomunicazioni. Un rinnovo importante, sia perché riguarda direttamente un settore messo alla prova in tutti i sensi dal Covid e dalla diffusione dello smart-working e del telelavoro, sia perché segna un’altra secca smentita rispetto alla linea di Confindustria di chiusura alla centralità dei contratti collettivi nazionali, sia perché si è trattato di un rinnovo positivo dal punto di vista economico come normativo.
Un settore come quello delle telecomunicazioni assume un rilievo emblematico nell’epoca del distanziamento sociale costretto dalla pandemia. Il mondo delle telecomunicazioni ha fatto esplodere le contraddizioni del digital divide e delle infrastrutture digitali quando è stato messo alla prova dallo smart working e dalla didattica a distanza, dimostrando ancora una volta come al nostro Paese servano investimenti, strategie, innovazione.
Per questi motivi è stato importante siglare un rinnovo contrattuale che riscrive 40 dei 58 articoli del testo, che riconosce un aumento salariale concreto di 100 euro nelle buste paga, oltre a 450 euro di una tantum per la vacanza contrattuale.
Ma è anche un contratto che aumenta i versamenti da parte delle aziende nel Fondo Telemaco per la previdenza complementare, che punta sulle politiche attive per il lavoro creando un Fondo bilaterale di solidarietà che servirà per sostenere il reddito dei lavoratori nelle riorganizzazioni, che gestirà risorse per la riqualificazione professionale in un settore in continua evoluzione tecnologica, e servirà a sostenere la staffetta generazionale.
Nel contratto poi si interviene anche per rinsaldare la filiera di settore cercando di limitare il dumping degli appalti. Con questo contratto si affronta anche il tema del “lavoro agile”, già contrattato in molte aziende importanti, introducendo il diritto alla disconnessione e ai tempi di riposo. Si inizia anche, finalmente, ad affrontare il tema del riconoscimento ai lavoratori in smart-working non solo di chiari diritti contrattuali ma anche, in caso di aumenti di produttività ottenuti proprio grazie al lavoro a distanza, la destinazione di parte delle nuove risorse per un piano di riduzione dell’orario di lavoro.
Ma il contratto delle telecomunicazioni, grazie al lavoro della Slc Cgil, cerca anche di tenere assieme i settori più deboli, respingendo il tentativo di far uscire dal perimetro contrattuale i Contact Center in outsourcing. Per questi lavoratori invece abbiamo anche finalmente ottenuto un miglioramento con le maggiorazioni per le ore supplementari, e l’Egr di 260 euro per le aziende dove non vi è contrattazione per il premio di risultato aziendale.
Un contratto insomma che guarda al futuro, tentando di non lasciare indietro nessuno. Dimostrando così che è proprio vera la lezione della pandemia, perché anche nel lavoro dalle difficoltà se ne esce assieme, in avanti, e non lasciando indietro nessuno.
Nella legge di stabilità 2021 è stata finalmente inserita una norma che, a 10 anni dalla sentenza della Corte di Giustizia europea, adegua la legislazione italiana alle direttive Ue, che vietano la discriminazione nell’accesso alla pensione per i part-time ciclici verticali.
Lavoratori e lavoratrici degli appalti scolastici, ma non solo visto che questa tipologia contrattuale è in crescita in molti settori, erano penalizzati nell’accesso alla pensione. L’Inps infatti, indipendentemente dal reddito, non considerava ai fini dell’accesso alla pensione le settimane in cui erano sospesi dal lavoro. Ad esempio negli appalti scolastici per ogni anno di lavoro venivano computate 40 settimane e non 52: per maturare 20 anni di contributi dovevano lavorarne 26.
Dal 1° gennaio 2021, grazie a questa modifica, una parte delle centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori con contratti part-time ciclici potranno recuperare settimane, mesi, anni utili per accedere alla pensione, senza la necessità, come in questi anni, di promuovere ricorsi amministrativi e vertenze giudiziarie contro l’Inps.
Se questo risultato è stato raggiunto, lo si deve a come la Filcams Cgil, a partire dai territori, ha perseguito con tenacia e costanza questo obiettivo.
Nel settore degli appalti scolastici (una grossa fetta dei part time verticali), oltre ai problemi legati ai cambi appalto e alle aziende non sempre rispettose degli obblighi contrattuali, due problemi riguardano tutte le lavoratrici, sia che abbiano il contratto turismo, multiservizi o cooperative sociali. Uno è la mancanza di reddito nel periodo di sospensione: chi ha almeno 13 settimane di contributi negli ultimi quattro anni percepisce l’indennità di disoccupazione; queste lavoratrici, che di contributi ne versano per 40-44 settimane l’anno, quando sono senza lavoro invece non ricevono neppure gli assegni famigliari. Il secondo problema è, finora, la penalizzazione nell’accesso alla pensione, per la mancata applicazione delle direttive europee.
Favoriti anche da una nostra massiccia presenza (70% di iscritte su 2mila dipendenti), abbiamo iniziato a Milano nelle aziende dei servizi di pulizia e ristorazione nelle scuole del Comune a raccogliere la disponibilità delle lavoratrici a far causa all’Inps, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia europea. Tra maggio e settembre 2016 abbiamo raccolto oltre 1.500 adesioni e messo in campo le prime cause. Insieme alle iniziative legali proseguiva la campagna di coinvolgimento delle lavoratrici, avendo cura di informarle costantemente e di far apparire sulla stampa articoli che evidenziassero i loro problemi. Numerose sono state le iniziative pubbliche, con manifestazioni e flash mob sotto le sedi della prefettura e dell’Inps.
Dall’autunno del 2017, a partire da Brescia, abbiamo costruito interlocuzioni con i parlamentari locali di vari gruppi, dal Pd alla Lega ai 5 Stelle. Parlamentari che hanno partecipato alle assemblee pubbliche molto affollate organizzate nel territorio. Questa azione di costante pressione ha portato alla presentazione di ordini del giorno regolarmente accolti dal Parlamento, e a proposte di emendamento alle finanziarie del 2018, 2019 e 2020, che alla fine venivano però cassate.
Anni nei quali ci siamo costantemente inventati iniziative per tener viva l’attenzione pubblica, sempre con la partecipazione delle lavoratrici. Il video messaggio inviato a tutti i parlamentari - ancora visibile su you tube e sulla pagina facebook della Filcams di Brescia - pensiamo sia stato un semplice e efficace strumento per illustrare le condizioni di queste lavoratrici.
In definitiva abbiamo utilizzato una molteplicità di strumenti, in modo coordinato e funzionali all’obiettivo: informazione continua ai lavoratori, presenza sugli organi di stampa, iniziative legali generalizzate finalizzate al cambiamento delle norme, iniziative pubbliche e flash mob, costante rapporto con i parlamentari del territorio.
In questi anni è cresciuto anche l’impegno della Filcams e della Cgil nazionali, affinché il tema divenisse oggetto del confronto con il governo. E finalmente oggi abbiamo raggiunto questo primo risultato: non si è un trattato di un regalo governativo ma il frutto di una costante e articolata azione della Filcams e della Cgil.
Questo risultato deve rafforzarci nell’affrontare l’altro problema che vede discriminati i part-time ciclici: la mancanza di qualsiasi elemento di welfare durante i mesi in cui sono involontariamente senza lavoro.
Last but not least, il provvedimento della legge di stabilità 2021 non risolve il problema per coloro che non raggiungono i minimali previsti dall’Inps. Per aver riconosciute 52 settimane ai fini pensionistici un lavoratore deve guadagnare 10.724 euro all’anno (dato 2020). Tra i 4,5 milioni di part-time in Italia, non pochi non raggiungono tale retribuzione. Occorre modificare le norme, oppure i giovani con contratti precari e discontinui, e tutti coloro con part-time di poche ore, non solo avranno una pensione bassa, spesso inferiore alla minima, ma dovranno lavorare più anni per accedervi.